#genderless

Maurizio Crippa
Il messaggio riuscito di Diesel, una bella foto pubblicitaria e quelle parole che ci dominano. Lo slogan “This ad is gender neutral”, conferma l’impressione di essersi imbattuti non in una furbata pubblicitaria, ma in un messaggio riuscito.

Il maglione colorato di lana grezza non è l’oggetto, non è la notizia. I tratti androgini della ragazza lo sono marcatamente, i tratti asiatici del ragazzo (è coreano, è una delle star del momento, si chiama Sang Woo Kim) sono marcatamente maschili e al contempo fortemente androgini. Tra le mille immagini dell’advertising, quelle che filano via al mattino sotto il dito sull’iPad o sfogliando i giornali, rese invisibili dall’assuefazione, ci deve essere un motivo se la fotografia di Richard Burbridge per la campagna autunnale di Diesel ha catturato l’occhio, fermato per un attimo l’indice a scorrimento rapido. Prima ancora che nella pagina a fianco il claim che la accompagna, “This ad is gender neutral”, confermasse l’impressione di essersi imbattuti non in una furbata pubblicitaria, ma in un messaggio riuscito. Riuscito perché con pochi segni sintetizza molte sovrastrutture mentali diventate fraseologia comune. Gender, neutral. Identità sessuale indifferente. Non più incerta – concetto vecchio – ma indefinibile. E guai a volerlo fare. L’ambivalenza come unica identità di sé e quel che si porta dietro in fatto di stili di vita, di scelte reversibili. Di consumi.

 

Così, è il primo pensiero, anche Diesel – che ha sempre fatto del tono scanzonato e aggressivo il suo marchio comunicativo, e a volte s’è beccata pure accuse di scorrettezza, si esibisce nel suo correttissimo inchino al gender. Secondo pensiero: se anche la moda, quella pop, quella dei grandi numeri, approda all’uso della parolina nella sua nuova valenza di moneta corrente – gender is the new black – poco manca che anche la casalinga di Voghera sarà pronta al suo prosciutto cotto reclamizzato “gender neutral”, dal pizzicagnolo.

 

Ma se la pubblicità di Diesel riesce a dire qualcosa di più (non tutta la campagna, comunque, è su questo tema) è proprio perché gioca su una parola diventata luogo comune globale, al di là del suo significato specifico. Un sito iperspecializzato in come vanno le cose, Trendwatching.com, ha scritto che “le persone di tutte le età, in tutti i mercati del mondo, stanno definendo la loro identità con una libertà prima sconosciuta”; gli hashtag #genderless o #agender sono da tempo i più attenzionati dai selezionatori di nuovi trend, nella moda e in altre merceologie.

 

L’inconsapevole Anna Tatangelo

 

Che la pubblicità non abbia mai inventato il mondo, e neppure il linguaggio, è un dato di fatto che si dimentica sempre. Così di fronte alla tracimazione assoluta, avvenuta nel giro di pochissimi anni, di tutto ciò che concerne l’ideologia gender, c’è chi dà la colpa soprattutto alla pubblicità, ai media. Non era così neanche quando Emanuele Pirella e Oliviero Toscani osarono lo slogan “Non avrai altro jeans all’infuori di me”, sovrapponendolo a un’immagine dalla corporeità (per i tempi) assai ambigua e indefinita. Non era una rivoluzione, era la presa d’atto di un pansessualismo ormai comunemente accettato. Sarebbe più ingenuo del dovuto anche sostenere che sono i fatti che creano le parole e le immagini, e che dunque si parla molto di gender nella pubblicità perché la comunità lgbt è diventata demograficamente preponderante nel segmento dei “responsabili acquisti”, come dicono al marketing. (Ovviamente mi daranno del sessista, ma non c’è bisogno di aver letto Gombrich per saperlo).

 

La verità è che la parola “gender” ha bucato la barriera della lingua comune ed è diventata cosmuno, riconoscibile. Fino a qualche anno fa era il nocciolo trasgressivo di supposte rivoluzioni culturali, oggi è un nuovo perbenismo linguistico. Banale, pronto per non dire più nulla, a disposizione delle masse e delle casalinghe. Con tutto il delirio di correctness che ne consegue. Mesi fa la campagna di una casa di pannolini è stata bloccata per sessismo, perché insisteva troppo sul dato “culturale” che bambini e bambine sono diversi. L’inconsapevole Anna Tatangelo è stata massacrata perché s’è fatta fotografare con le tette di fuori per una campagna di sensibilizzazione sul tumore al seno, e dunque la “genderizzava” in modo scorretto (come può un problema femminile essere agender?). Quando una parola non significa già più nulla ma tutti la sanno, diventa buona per vendere.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"