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La bolla più hipster di tutte, quella della barba, è (finalmente) scoppiata

Michele Masneri

Adrian Wooldridge lo ha annunciato su twitter: “A San Francisco, epicentro del problema, son tutti completamente sbarbati”

Roma. Non si sa se sia una delle conseguenze del micidiale climate change: e però – dicono i bene informati – non solo i ghiacciai si sciolgono e le foreste si seccano. Anche la barba si sta esaurendo. Si sarebbe insomma agli sgoccioli di quel rinascimento pilifero che ha visto maschi di qualunque estrazione sociale, età e inclinazione coltivarsi barbe risorgimentali foltissime, dedicandovi anche molto tempo ed energie. L’allarme lo ha lanciato Adrian Wooldridge, political editor e columnist dell’Economist, fine conoscitore, come dicono le persone fini, delle cose americane. L’altro ieri in un tweet Wooldridge ha annunciato che “la bolla della barba è scoppiata. A San Francisco, epicentro del problema, son tutti completamente sbarbati”. Noi si andrà lì, nei prossimi giorni, anche a chiarire questo mistero. Intanto il prestigioso internet estero si divide: chi dice che cotanta bolla era già scoppiata due anni fa a Londra, chi dice che siccome il pelo, così come la politica, non tollera il vuoto, la crisi della barba non sarebbe che l’anticamera di un ritorno globale del baffo (a Milano se ne era avuto il sospetto, in questi giorni).

  

Quali però le cause? Il riscaldamento? Ci vorrebbero autorevoli pareri.

E non sarà, come per lo scioglimento dei ghiacciai e le previsioni demografiche del club di Roma, un falso allarme? Si sa che talvolta si fanno previsioni avventate. Già nel 2014 il Guardian segnalava che quello era stato l’anno del picco della barba. E “le barbe non sono più cool”, titolava Vice due anni dopo. Invece siamo ancora qui, barbuti. O forse post-barbuti: un occhio attento si sarà accorto che le barbe sono diminuite, nella quantità e nella mole. Ci sono barbuti anche molto araldici, Re (Felipe di Spagna), e principi (Harry d’Inghilterra). Però il momento “qui si esagera”, quando proprio tutti, perfino e insospettabili celebrità si presentavano con incongrui covoni di pelo sotto al mento (Jim Carrey o David Letterman) pare alle spalle.

   

Per tanti era stata una gran comodità: via le schiume e le lamette e le irritazioni, e più ore dedicate al quality time. Taluni avevano finito invece per affezionarsi, alla propria barba, e come con quei figli avuti in tarda età, viziarla e vezzeggiarla. Spendendovi dietro tempo ed energie e denari. Era nato tutto un mercato di cere, olii, profumi, “grooming”. Soprattutto tante barberie, rette da “bear” necessariamente irsuti e possibilmente tatuati, magari in camicia e bretelle, che avevano popolato “barber shop” in giro per il mondo, negli epicentri hipster (New York San Francisco Londra e anche un po’ Milano) ridando nuova linfa anche a vecchi marchi come la Prep (da non confondere con quell’altro prodotto molto utile).

    

A San Francisco si teme dunque per questo indotto: nel nostro periodo siliconvallico ci si era infatti resi conto che più che i venture capitalist e i programmatori, i barbieri erano la professionalità più richiesta (insieme ai portinai, categoria rivitalizzata dalle consegne Amazon). Lì la temperie pilifera aveva incontrato l’ultima frontiera del neoliberismo siliconvallico; il coworking. Un modello appunto condiviso ove un gestore di salone subaffitta ai barbieri, che gli corrisponderanno un fisso o percentuale. Si prenota assolutamente solo via app, e una volta lì, ecco barbieri poltronisti in diretta concorrenza col loro vicino: il liberismo selvaggio del rasoio portava a una certa tensione, e sguardi un po’ pietosi tipo cane al canile (scegli me!, scegli me!).

    

Da Barber Joe, classico salone su Market Street, quella dove hanno gli uffici Uber e LinkedIn, all’ingresso c’è un iPad con app saltacoda per chi non si fosse registrato online, e un banchetto di prodotti per barbe (anche per increspature con “surf look”, a base di acqua di mare). L’algoritmo sceglierà il primo barbiere disponibile tra una ventina di postazioni: ognuno ha i suoi cinque-sei rasoi elettrici appesi alle pareti come trofei di caccia (se si vuole un taglio con le forbici, ormai vintage come un vinile, c’è un sovrapprezzo).

   

I barbieri da coworking espongono insieme ai rasoi i diplomi di rasatori ottenuti in qualche accademia fisica o online. Più tante prese di corrente per alimentare gli iPhone dei rasaturi. Il barbiere da coworking tenterà di fidelizzarti, tu potrai dare la mancia premendo l’apposito tasto sulla sua app, e nel caso iscriverti alla sua mailing list. Lì sarai perduto, perché il rasatore da coworking non solo vorrà dei rating e dei like, ma ti perseguiterà per sempre con i suoi auguri di San Valentino e Hannukah e Natale, e consigli non richiesti di bellezza. Terrà a informarti anche quando cambierà location per provare una nuova startup con una nuova poltrona, in un’altra città, in un altro stato. Adesso, toccherà preoccuparsi per loro? Si confida nella leggendaria capacità di riconversione americana. In quel caso, tutti pronti a trasformarsi in maestri di lametta a levigare una generazione di twink (tipologia dell’adolescente glabro, da una celebre barretta liscia liscia che andava in America negli anni Sessanta: anche nella versione più muscolare, twunk).

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