Elaborazione grafica Il Foglio

Il tappo dei sovranisti

Giuseppe De Filippi

Due passi al Vinitaly per capire che le eccellenze italiane funzionano solo con le ricette opposte a quelle dei populisti

Verona. Se nel mondo vinicolo e commerciale veronese avessero ragionato con il pessimismo e i suoi addentellati, Vinitaly non sarebbe proprio nata. Si parte, veramente tra quattro amici, senza idea delle prospettive di crescita. Nel frattempo, dalla partenza a oggi, il consumo di vino in Italia viene più che dimezzato. Intanto arrivano nuovi produttori esteri con tanti muscoli anche se non eccezionale qualità. Poi arriva il metanolo, una mazzata da cui il settore, se guidato da pessimisti, non si sarebbe ripreso. Insomma, i numeri e alcuni episodi drammatici vanno letti, capiti e interpretati. Non spiattellati lì come il perenne elenco della sfortuna e come il potente strumento del conservatorismo. Invece, appunto, Vinitaly è andata avanti. I dati dell’edizione in corso sono straordinari.

 

Aspiranti presidenti del Consiglio e presidenti dimissionari vengono a fare rapide ma molto seguite passeggiate tra stand e bottiglie. Alcuni ascoltano, altri danno linee che sembrano puntare a una direzione opposta a quella presa, quasi senza un piano, dalle aziende, dai consorzi, dalle cooperative di maggiore successo. Il governatore della regione ospitante Luca Zaia si distingue con una serie di battute che certamente restano tali ma lasciano un retrogusto di inutile polemichetta. E le sciorina quelle battute col tipico piglio leghista, quello che anche quando riconosce risultati positivi (ad esempio tra le imprese guidate da giovani) deve mettere su la faccia di uno che ti suona perché non parti al semaforo e la voce di chi ti manda a quel paese. Sono vezzi, nient’altro, ma in sala fanno salire senza ragione la tensione. Figuriamoci poi se si mette a parlare del nemico d’oltralpe, ecco subito la trumpata pronta con l’esortazione (ma il tono è sempre quello del semaforo) rivolta ai ristoratori perché tolgano le bottiglie francesi dalle loro carte dei vini.

 

Il tutto detto con la competenza di ex ministro dell’Agricoltura ma dimenticando che l’Italia deve (per quei dati di prima sui consumi) mandare all’estero il 60 per cento della produzione vinicola. Sì potrebbe dire che il Vinitaly, con questo nome allora buffamente anacronistico, nasce proprio per cominciare a guardare fuori. E poi le etichette francesi vendute in Italia (intanto alzi la mano chi ordina vini francesi più di due volte l’anno) sono così tante? Spiazzano i nostri campioni? “Ma proprio per niente – ci dice con un bell’occhio toscano furbo e rapace un produttore da milioni di bottiglie, che ha in cantina prodotti da supermercato e anche bottiglie premiate – anzi, ben vengano a tirare su i prezzi, tanto la partita è tutta lì e i francesi sono maestri nel collocamento in alto dei prezzi dei loro prodotti. Ma se un Bordeaux o un Borgogna riescono a far passare l’idea di esborsi notevoli allora io riuscirò a piazzare un po’ più su anche i miei di punta”. Poi vai a parlare coi piccolini e capisci che dell’importazione gli importa zero ma che invece hanno imparato a chiedere ai consorzi, alle associazioni e perfino alle regioni di aiutarli ad andare sui mercati esteri. Il sovranismo, per loro, sa tremendamente di tappo. Ma applaudono lo stesso chi lo reclama. Forse già sanno che è tanto per dire.

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