Disagio di classe
Tra Veblen e Marx: la lotta dei giovani per la conquista di uno status sociale effimero
Cosa succede se un’intera generazione, nata borghese e allevata nella convinzione di poter migliorare – o nella peggiore delle ipotesi mantenere – la propria posizione nella piramide sociale, scopre che i posti sono limitati, che quelli che considerava diritti sono privilegi e che non basteranno né l'impegno né il talento a difenderla dal terribile spettro del declassamento? E’ la domanda a cui risponde la “Teoria della classe disagiata” (Minimum fax) di Raffaele Alberto Ventura.
Contrariamente a quello che sostengono i contabili, l’economia non è sempre razionale. Come in un racconto horror di Lovecraft qualcosa di antico, di tribale, continua a riaffiorare da sotto la sua scorza: è l’inconscio delle classi che parla attraverso le nostre azioni. Le scelte individuali sfuggono spesso alla logica dell’utilità marginale, non rispettano la gerarchia dei bisogni, talvolta risultano apertamente incoerenti. La colpa è, tra le altre cose, dell’effetto Veblen.
Di regola la domanda di un bene aumenta al diminuire del suo prezzo, ed è abbastanza intuitivo capire perché: chi vorrebbe pagare di più se può pagare di meno? Ma esiste un particolare tipo di beni, ovvero i beni di lusso, o beni Veblen appunto, che funzionano esattamente al contrario: la loro domanda cresce all’aumentare del prezzo. Il mondo è pieno di persone ben contente di pagare per un certo prodotto un costo molto superiore al suo valore d’uso perché è proprio il prezzo esclusivo a rendere attrattiva una certa borsetta o un certo orologio da polso, a farne (come si dice) uno status symbol. Così il prezzo stesso diventa una delle caratteristiche salienti del bene che compriamo; quasi potremmo dire che non stiamo comprando una merce ma il suo prezzo. Di fatto chi indossa un orologio d’oro non sta ostentando quell’orologio ma il suo valore di scambio simbolico.
Possiamo illuderci che questo fenomeno riguardi soltanto certe persone molto facoltose, o addirittura una particolare categoria di ricchi che compensa la propria salute economica con qualche serio disturbo della personalità. Possiamo pensare, ad esempio, ai “Rich Kids of Instagram”, dal nome di una pagina che raccoglie le testimonianze visive dell’esibizionismo delle giovani élite di tutto il mondo. Ma dietro questo bug annidato tra le leggi della microeconomia si nasconde un’intera teoria della società; una teoria che spiega gran parte delle nostre decisioni – persino quelle di noialtri che un orologio d’oro non ce l’abbiamo e che alla “riccanza” esibita preferiamo i valori fintamente ascetici del ceto medio riflessivo. Si tratta della “Teoria della classe agiata” di Thorstein Veblen, economista americano di origini norvegesi e salda cultura protestante, che volendo descrivere la borghesia americana del suo tempo (1899) riesce a fornirci gli strumenti per capire il nostro presente. Perché l’effetto Veblen ha un corollario tragico: a furia di spendere una quantità crescente di risorse per affermare il nostro status, il rischio è semplicemente quello di rovinarci e passare, in un batter d’occhio, da classe agiata a classe disagiata.
Jean Baudrillard scrisse, in un breve articolo del 1969 intitolato “La genesi ideologica dei bisogni” poi raccolto in “Per una critica dell’economia politica del segno”, che l’intuizione di Veblen stava al cuore della comprensione della logica interna della società dei consumi. Certo, tutto dipende da cosa intendiamo per lusso e se siamo in grado da distinguerlo “oggettivamente” dal semplice bisogno. La Teoria della classe agiata di Veblen era una fotografia impietosa di una classe oziosa e improduttiva (in originale “leisure class”) impegnata a rivaleggiare per il prestigio attraverso l’ostentazione dei propri consumi, detti “vistosi” o “posizionali”. Ma alla classe media contemporanea non serve ricoprirsi d’oro e pietre preziose come i suoi antenati barbari, perché i lussi descritti da Veblen sono spesso e volentieri immateriali. Un secolo fa, il sociologo citava alla rinfusa: la conoscenza delle lingue morte, di diversi generi musicali o delle ultime mode nell’abbigliamento... Oggi parleremmo di educazione secondaria o di attività culturali, stupendoci che qualcuno possa considerarle in maniera tanto irrispettosa. Quale studente di filosofia mai considererebbe un lusso la propria disciplina? In un articolo del 1941 Adorno definì la teoria di Veblen addirittura un “attacco alla cultura”. Evidentemente, la questione è più complessa di una semplice opposizione tra utile e inutile. In seno alla classe agiata, e dunque anche in quella disagiata, i consumi posizionali sono la merce più preziosa perché servono a stabilire i ruoli sociali e l’accesso alle risorse. Si tratta di una logica della differenziazione che costituisce, secondo Baudrillard, nientemeno che la legge fondamentale della nostra società. Negli stessi anni Pierre Bourdieu sviluppa il concetto di “distinzione” e trasferisce nel linguaggio della sociologia la metafora economica del capitale per parlare di “capitale sociale” o “capitale simbolico” che viene accumulato e scambiato attraverso l’ostentazione di certi consumi culturali.
Eppure Veblen definisce improduttivi questi consumi: secondo lui, sono attività che servono a testimoniare pubblicamente il fatto che chi le pratica se le può permettere. Sembra una banalità ma bisogna ricordarlo: studiare, apprendere un mestiere o un’arte, frequentare i giri giusti sono attività costose perché consumano tempo e incorporano il lavoro di altre persone. Si tratta spesso di costi indiretti, nascosti, rimandati, ridistribuiti, scaricati altrove; eppure da qualche parte, prima o poi, qualcuno ha pagato o pagherà. E’ questo il paradosso che si ostinano a non vedere tutti quei fantasiosi post-operaisti che sostengono che queste operazioni di consumo – si tratti anche della creazione di meme su Facebook – sono in grado di generare un plusvalore e debbano perciò essere remunerate. Al contrario, bisogna ricordare che dietro ognuna di queste attività c’è una distruzione di risorse spesso ben più importante del valore aggiunto generato. Certo che ci costano impegno, certo che trasformano una mole impressionante di capitale simbolico accumulato, certo che ne producono di nuovo e nessuno può sapere quello che ne resterà tra dieci o cent’anni: ma infatti da che mondo è mondo è lo spreco il motore dell’innovazione, ovvero una scommessa con l’avvenire che ha molte più possibilità di fallire che di riuscire.
Il concetto di classe disagiata che propongo include un ampio spettro di casi umani, tutti caratterizzati dall’esperienza disforica della mobilità discendente: dal nobile decaduto al figlio della piccola borghesia che prende coscienza del fallimento del suo progetto di ascesa sociale, dal “creativo” che accumula visibilità nella speranza di farsi strada in un settore fin troppo affollato fino al lavoratore salariato che vede il proprio settore minacciato dal progresso tecnologico o dalle delocalizzazioni, passando per tutti quelli che, facendo violenza alle proprie inclinazioni, riescono a garantirsi un relativo benessere materiale finendo magari nelle spire dello stress e della depressione. La classe disagiata sono i disoccupati che aspettano che si liberi un posto nel settore per cui sono stati formati, fosse anche la conduzione di carrozze o il cinema muto, ma anche gli occupati che giurano ogni giorno, di mese in mese e di anno in anno, che il loro impiego è soltanto “temporaneo” e “alimentare”. Sono i precari che diventano “imprenditori di se stessi” per scelta o per necessità, membri di quella categoria che Silvio Lorusso ha definito entreprecariat, ma anche gli studenti che attendono di realizzare il futuro che credono di meritare. In tutti si produce quello sfasamento tra l’identità sociale percepita e le risorse disponibili che caratterizza la classe disagiata. Si tratta di una condizione esistenziale che può essere ritrovata in tutte le epoche: negli anni Cinquanta di Luciano Bianciardi, che alle delusioni del “lavoro culturale” ha dedicato degli scritti illuminanti, ma persino nella Venezia del Settecento o nel Medioevo islamico, come vedremo, insomma ogni volta che una generazione si interroga sul proprio posto nel mondo. Se abbiamo voluto partire da Veblen per sovraincidere un termine, disagio, spesso usato con diversa accezione – per indicare una generica povertà – è perché l’economia dello status risulta fondamentale per capire un’altra povertà. Si tratta della miseria relativa crescente che nella società borghese coesiste con l’abbondanza.
La classe disagiata, come vedremo, è come incatenata a un’educazione che la costringe a desiderare un’esistenza che non può permettersi, perlomeno a lungo termine. A prima vista la nostra piramide dei bisogni risulta visibilmente sottosopra, con certi bisogni posizionali (ciò che Abraham Maslow chiamava “autorealizzazione”) che prendono il sopravvento su bisogni primari come alimentazione, salute, sicurezza. Lo scrittore Tommaso Labranca fece una caricatura di questo rovesciamento in un libro del 2002, “Neoproletariato”, descrivendo orde di nouveaux riches indigenti nel loro andare al Lidl in Mercedes. Ma ancora più tragicomici siamo noi laureati, che ci condanniamo a un futuro di miseria – economica o spirituale, a scelta – pur di non rinunciare ai nostri vezzi da signori. Il sistema pensionistico come lo conosciamo oggi non esisterà più quando saremo vecchi: e allora? Questa terribile prospettiva suscita tutt’al più qualche ironia e non sembra in alcun modo ispirare drastiche scelte di vita: la miseria non riusciamo nemmeno a immaginarla. I più pragmatici tra di noi sceglieranno un compromesso con la realtà, ovvero la condanna a una vita quotidiana fatta di fatica, noia, umiliazione e risentimento, insomma il cosiddetto “successo”.
Nei suoi studi sul precariato, e in particolare nel manifesto Diventare cittadini del 2014, Guy Standing ha descritto la “frustrazione da status” che affligge la generazione degli attuali venti-trentenni convinti che sia stata loro promessa una vita professionale ben diversa. Alle stesse conclusioni sono arrivati i sociologi Mike Savage e Fiona Devine in uno studio imponente sulle classi nel Regno Unito, condotto a partire dal 2013, che ravvisa l’emergenza di nuove categorie caratterizzate dalla combinazione inedita di differenti tipi di capitale – economico, sociale, culturale – e impegnate perciò a “negoziare” in maniera talvolta traumatica la propria identità. In ognuna delle sue incarnazioni la classe disagiata combina i tratti della borghesia, e soprattutto la sua ideologia, con altri tratti più tipicamente proletari come la percezione di essere sfruttati e minacciati da un “esercito di riserva” di lavoratori ancora più disperati. Dietro alla narrazione leggendaria emersa nei primi anni Duemila sul terziario avanzato si è iniziato a intravedere il rovescio della medaglia, che in Italia Bertram Niessen illustra nelle sue ricerche, ovvero l’instabilità economica e le sue innumerevoli conseguenze esistenziali.
“La proliferazione di regimi retorici costruiti attorno alle Industrie Culturali e Creative”, scrive Niessen in un articolo incluso nel volume collettaneo “Platform Capitalism e confini del lavoro negli spazi digitali, “ha costruito un immaginario collettivo secondo il quale le nuove professioni legate alla creatività avrebbero permesso non solo una piena realizzazione delle proprie aspettative identitarie, ma anche di quelle economiche. Non è andata esattamente in questo modo”.