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Maestrine con la spranga rossa. Ilaria Salis e l'ideologia manesca del ceto medio riflessivo armato

Maurizio Crippa

Quando gli insegnanti antifa salgono sulla barricata (e menano). Ci siamo appena liberati dei cattivi maestri ed eccoci precipitati in una nuova categoria detentrice esclusiva del Bene e dell’autorizzazione a inculcarlo

Scontata la vittoria per distacco di Salvini (e del team della Lega) per l’uscita più sgangherata sul caso della detenzione in catene di Ilaria Salis – voli carpiati di varia difficoltà da “ogni paese punisce come vuole” al patriarcale “non vorrei fosse la maestra di mia figlia”. Ma il podio solo un gradino più basso nella classifica delle stupidaggini se lo aggiudica il padre, Roberto Salis, che aveva subito risposto a Salvini con eccessiva sicumera: “Auguro a sua figlia  di avere un decimo dei valori etici di mia figlia”. Dal che si deduce che, secondo il buon papà democratico, andare all’estero con un manganello nello zaino è un atteggiamento ricco di valori: “Lo aveva portato con sé per un’eventuale difesa personale”. Non c’è bisogno di scomodare Cechov per sapere che se nella prima scena compare un manganello, presto o tardi finirà sulla testa di qualcuno. Reati e catene a parte, c’è però un tema più generale, e se possibile più grave, suggerito dal diverbio sui valori educativi della “maestra antifascista” di Monza che viaggia per insegnare democrazia munita di manganello.

Lo chiameremo il tema della maestrina con la spranga rossa. Ci siamo appena liberati dei cattivi maestri, nemmeno tutti, ed eccoci precipitati in una nuova categoria soi disant detentrice esclusiva del Bene e dell’autorizzazione a inculcarlo. Preferibilmente con le cattive. Non c’è solo il caso di Ilaria Salis (ormai nei titoli italiani semplicemente “Ilaria”, un brand del sentimento come “Jannik”), le maestrine con la spranga rossa sono una tipologia diffusa. Sono i non infrequenti casi di docenti d’ogni ordine e grado che dal ruolo di educatori inclusivi e aedi dei valori costituzionali passano repentini all’azione, violenta o d’indole violenta, sulla cima della barricata. C’è la maestra di Torino  Lavinia Flavia Cassaro, licenziata dalla scuola pubblica perché aveva gridato agli agenti “dovete morire”, augurio altamente civile. C’è la prof. padovana Maria Giachi, denunciata (e assolta per tenuità del fatto) per deturpazione e imbrattamento durante una manifestazione femminista (le compagne la difesero al grido “siamo tutte cattive  maestre”).

 

Dalla funzione educativa alla funzione pedagogico-rivoluzionaria – è prevaricazione a fin di bene, che sarà mai? – il passo è stranamente breve. Del resto il santo tutelare di tutti i maneschi maestri progressisti è don Milani, uno che era favorevole nella teoria e anche nella prassi alle punizioni corporali per chi non volesse intendere le sue (buone) ragioni. E soltanto le sue. Un istinto prevaricatore, e la giustificazione di certi atteggiamenti, ma solo se non siano fascisti, ovvio: è rimasto come un ristagno nelle vene della professione docente, truppa scelta di un ceto medio riflessivo ma autoritario che si sente depositario unico dei valori del progresso fin dai tempi oscuri delle contestazioni. Il ribellismo delle classi docenti. Alcuni insegnanti del Cobas di Palermo furono denunciati per vilipendio a causa di  uno striscione, “la mafia ringrazia lo Stato per la morte della scuola” in una manifestazione “non autorizzata e con resistenza a pubblico ufficiale”. Ma sempre per dare il buon esempio agli studenti.

 

Da antologia è la storia Nicoletta Dosio, insegnante di materie umanistiche per una vita e più volte arrestata in Val di Susa per partecipazione ad azioni violente No Tav. Ha passato i settanta, e il bello è che non ha mai trovato contraddizioni tra il suo ruolo di educatrice autorizzata e i suoi comportamenti extralegali. Non ci sono solo episodi di violenza esplicita, ci sono anche casi più subdoli di una imposizione ideologica ingiustificata, come il docente del liceo Righi di Roma che faceva propaganda contro Israele sulle spalle di uno studente ebreo, o la preside del liceo fiorentino che scrisse agli studenti “sappiate che è in momenti come questi che, nella storia, i totalitarismi hanno preso piede”, e si meritò una secca replica del ministro Valditara contro “un’iniziativa strumentale che denota una politicizzazione”. Può sembrare una serie sfortunata di coincidenze, può sembrare nulla. Ma esiste, incistato nel pregiudizio di essere gli unici depositari dei valori democratici, un  risvolto che di democratico e tollerante ha poco. Bisogna far trionfare i valori, i propri. E se non li vogliono imparare con le buone, l’uso della forza non è una brutta idea. Che cosa accomuna, in fondo, i trattoristi che ieri hanno abbattuto una statua a Bruxelles agli attivisti che le abbattevano in America, gli imbrattatori di Ultima generazione agli attivisti antifa che vanno a Budapest per esportare la democrazia? Proprio nulla. I valori possono essere intercambiabili, persino opposti, ma la presunzione di essere dalla parte del giusto, e di potere usare anche modi maneschi per imporsi, è identica. In fondo, la insegnano anche a scuola. 

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"