Il pezzo che non torna nella storia di Lino, il ragazzino dalle treccine blu

Simonetta Sciandivasci

Jeans strappati e pettinature. Lo storto di una vicenda umana

Ci sono un paio di cose piuttosto rabbrividenti che ha detto Rosalba Raimondo, da molte ore eroina di Scampia, che se non fosse stata la preside di una scuola di Scampia, dove lavora da 36 anni, non avrebbe goduto della sola forma di attenzione di cui sembriamo essere ancora capaci, il clamore. E certo, prima di dire lo storto, dovremmo dire il dritto, e fa niente se risulterà paraculo come certe manifestazioni di solidarietà in cui prima di dirsi solidali si specifica di non condividere niente del solidarizzato.

  

Per chi fosse ancora in vacanza, la storia è questa: Raimondo ha impedito a Lino, un tredicenne presentatosi a scuola con le treccine blu, di entrare in classe, se n’è fregata delle “rimostranze” dei familiari del ragazzo che naturalmente hanno minacciato querela e pure dell’indignazione dell’Unione degli studenti Campania che hanno minacciato (pure loro!) di “non tacere davanti a questo scempio” (l’Uds, che ricordi, esiste ancora, incredibile, l’unico organo di parasinistra che non s’è scisso mai). Non s’è mossa d’un centimetro, Raimondo, fino a che il ragazzo non s’è ripresentato a scuola senza treccine – la madre ha detto che è stata una decisione che ha preso da solo, e che palesa quanto è maturo. E scegliete voi chi vi piace di più, se l’adulta che usa la propria autorità per impartire una lezione semplice, e cioè che non esiste fuggevolezza di gioventù che giustifica il presentarsi a scuola vestiti come se s’andasse a un rave (variazione del più generale est modus in rebus), o il ragazzino che, mentre intorno a lui si costituiscono comitati in difesa della libera espressione, capisce cosa quell’adulta ha tentato di insegnargli, ne riconosce la saggezza, e deduce che un giorno di scuola val bene la rinuncia a una capigliatura estrosa.

 

Raimondo, che come ha scritto Maurizio Crippa ieri su questo giornale “non è affatto una nostalgica dell’accademia militare” né assomiglia alla preside cattiva di “Matilida” di Roald Dahl, ha detto ieri a Repubblica che vietare quelle treccine è stato un gesto d’amore – “Lino, sei un ragazzo intelligente, è mai possibile che la tua massima aspirazione dev’essere quella di avere le treccine blu?”. E magari è fin troppo fantasioso interpretarlo come un modo di ricordare a un semi adolescente che avere un cervello rende liberi quando ci si assume la responsabilità di farlo funzionare al meglio e al massimo della fatica. Tuttavia, ve la sentireste di escludere che non sarà anche questa una lezione che a Lino resterà impressa?

  

Veniamo allo storto, che inevitabilmente inficia il dritto e rende tutta questa storia una di quelle in cui “un pezzo non torna” (sempre Crippa, sempre ieri su questo giornale). Raimondo ha detto anche che quando ha iniziato a lavorare a Scampia c’erano bambini che si presentavano a scuola coi pantaloni strappati perché non potevano permettersi di comprarne di nuovi, mentre “oggi ci sono alunni che acquistano jeans stracciati a 150 euro, vi sembra normale questa ostentazione?”. E sì che lo è, normale, non siamo nel libro Cuore. In questo paese i migliori film si perdono spesso nel finale con funerale e bandiere rosse, e le migliori intenzioni si perdono altrettanto spesso nel pauperismo: i “valori buoni” sono sempre incarnati dai malvestiti, umili, possibilmente poveri, mentre di quelli cattivi sono sempre personificazione i tamarri e gli spendaccioni. Da questo manicheismo progenitore dell’invidia sociale, vero veleno all’italiana, non riusciamo a venire fuori.

  

Seconda dichiarazione rabbrividente: “Per Lino vedo un futuro da grande musicista. Frequenterà la masterclass, prenderà il diploma, si iscriverà al liceo musicale e si imporrà con il suo talento”. Ricordate quella scena di “Hook capitan Uncino” di Spielberg, quando la mamma di Peter Pan dice a una sua amica che suo figlio “sarà un grande avvocato” e la carrozzina, con dentro Peter Pan, prende a rotolare via? Ecco, quella scena voleva significare che dal carrierismo degli adulti proiettato sui bambini bisogna scappare. Sempre. Fa nulla se poi si diventa bimbi sperduti.

 

Certo, i sogni di Raimondo sono più estetizzanti (vuoi mettere l’artista con l’avvocato), ma sempre sogni di alte carriere sono.

  

Non si misura il valore di un ragazzino da quanto promettente sia la carriera che immaginiamo possa avere, specie dopo avergli impedito di entrare a scuola con in testa un cestino di capelli blu, per fargli capire che il rispetto della forma è una tutela crescente per l’autenticità: questa sì che è una contraddizione capitalista, altro che pagare un paio di jeans 150 euro.

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