Valeria Fedeli (foto LaPresse)

Cara ministra Fedeli, sbaglia

Roberto Persico

Solo dove c’è un’amicalità reale fra insegnanti e studenti avviene un passaggio di cultura

Al direttore - Illustrissima signora ministra, Ella sbaglia. Sbaglia. Quando afferma che “il rapporto di amicalità tra studenti e docenti è totalmente inopportuno”, sbaglia. E può essere “molto severa e netta” finché vuole, ma uno sbaglio rimane uno sbaglio. Non un parere diverso, su cui si può discutere, no: uno sbaglio. Perché l’unica, ripeto l’unica condizione, a partire dalla quale ci può essere una trasmissione reale di cultura – una trasmissione reale di cultura, non una consegna meccanica di nozioni e magari anche di abilità e competenze, che è altra cosa – è una reale amicalità tra insegnanti e studenti. Insegno da quasi quarant’anni in scuole di ogni ordine e grado, e mai, ripeto mai, ho visto accadere qualche cosa di diverso: dove c’è un’amicalità reale fra insegnanti e studenti, lì avviene anche un passaggio reale di cultura; altrimenti no. A qualunque età e in qualunque tipo di scuola. Sono abbastanza vecchio da avere la presunzione di sapere qualcosa dell’amicizia – che non è quella sciocca compagnoneria dipinta qualche giorno fa sul Corriere da Alessandro Piperno, piuttosto quell’affinità sapientemente raccontata da Clive S. Lewis ne “I quattro amori” – e perciò di capire che essere amico dei miei studenti non vuol dire scimmiottare i loro comportamenti e linguaggi, fingendo di essere dei loro per compiacerli (un comportamento che peraltro sono loro stessi a fulminare con sarcasmo, quando un insegnante vuole giocare a fare il ragazzo). No, essere amico vuol dire avere a cuore il bene dell’altro, farsi carico della domanda che l’altro ha sulla vita, del desiderio che ha di capire qualche cosa di quel che sta a fare al mondo, e perciò di capire che nesso c’è fra le cose che la scuola insegna e quel desiderio.

 

E questo gli studenti lo capiscono al volo: capiscono al volo se per te, insegnante, loro sono nomi sul registro, problemi da risolvere, nel migliore dei casi risorse da valorizzare; oppure se li guardi per quello che sono, esseri umani, con tutto il loro carico di desiderio e di paure, di slancio e di debolezze. E se li guardi così a loro vien voglia di provare a studiare, di imparare, di cercar di capire perché quello che studiano può essere interessante per la vita. Altrimenti, nel migliore dei casi, se sono ragazzi garbati e beneducati, ripetono rispettosamente quel che c’è scritto nei libri; altrimenti combattono la scuola in tutti i modi, a partire da una sostanziale indifferenza.

 

Sono anche abbastanza vecchio da capire che, dal suo punto di vista, Ella ha ragione. Ella infatti rappresenta un sistema di istruzione che, fin dalle origini prussiane e napoleoniche e della loro ripresa a opera del Regno d’Italia, ha come obiettivo spezzare la trama di solidarietà reali fra gli abitanti del paese e sostituirla con il rapporto con lo stato come unica fonte di legittimazione, e da questo punto di vista l’insegnante è un funzionario della pubblica amministrazione, uno strumento di questo progetto burocratico, e in questo quadro certo che “il rapporto di amicalità tra studenti e docenti è totalmente inopportuno”. Il problemino è che questo progetto è destinato – inevitabilmente, per sua natura – al fallimento. Perché appartiene alla natura umana che il desiderio di imparare passi attraverso un rapporto di amicalità: un ragazzo, un giovane si impegna nello studio perché incontra un amico più grande – un amico più grande potremmo chiamarlo un maestro, nel senso più pregnante del termine – che mostra nella sua vita un interesse per le cose che insegna e per la vita dello studente che ha davanti. Altrimenti non si impegna.

 

Cultura moderna e la natura umana

 

Capisco bene che, almeno da Rousseau in avanti, tutto il tentativo della cultura moderna è di cambiare la natura umana: “Il legislatore – scrive J. J. R. nel Contratto sociale – deve sentirsi in grado per così dire di cambiare la natura umana”. Se non che la natura umana di lasciarsi cambiare non vuol sapere, è quel che è, è quella che aveva colto sant’Agostino mille e seicento anni fa: Nemo congnoscitur nisi per amicitiam: si impara solo dentro un’amicizia. Fino a che farò scuola, nessun ministro della Repubblica potrà impedirmi di essere amico dei miei studenti. Cordialmente.

P. S. Poi capisco che le sue parole prendevano spunto da episodi di insegnanti che abusano del loro ruolo per atti esecrabili, e va da sé che comportamenti del genere sono da spazzar via, e in questo non posso che essere al suo fianco. Però tali episodi non hanno niente a che fare con la parola “amicalità”, e il rischio – già tante volte visto – è che la giustissima lotta contro azioni spregevoli si estenda – consapevolmente o meno – a comportamenti che invece sono fondamentali perché la scuola sia quel che vuole essere.

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