Autonomia e parità scolastica per investire davvero sull'Istruzione

Mario Leone

Otto domande sulla scuola a Tommaso Agasisti, professore associato al Politecnico di Milano, School of Management e direttore del master in Management delle Istituzioni scolastiche

La scuola italiana vive un periodo di grandi cambiamenti. A che punto siamo?

Il mondo scuola è complesso. Molti parlano senza conoscere le diverse coordinate del problema. Io osservo e studio i sistemi di istruzione dal punto di vista degli apprendimenti. Le evidenze che abbiamo ci dicono che i risultati che i nostri studenti ottengono (comparandoli con campioni rappresentativi di ragazzi in altri paesi) nei tre grandi domini (matematiche, scienze e la lettura), sono relativamente modesti ma in crescita. I test OCSE-PISA nel 2000 riportavano risultati scadenti. Oggi sono abbastanza in media anche se ancora inferiore rispetto ad alcuni paesi. Non solo. Negli ultimi anni c’è una maggiore attenzione alla valutazione delle competenze e al loro miglioramento e finalmente si inizia a prendere consapevolezza delle cosiddette non cognitive skills sulle quali la scuola può avere un ruolo decisivo.

 

Molti docenti lamentano un progressivo abbandono dei “contenuti” che sta generando alunni sempre meno acculturati. Cosa ne pensa?

Tutti i sistemi di valutazione dei risultati delle attività educative guardano alle competenze per una semplice ragione: le competenze sono fondamentali per vivere in una società complessa come la nostra. Questo non significa eliminare le conoscenze. Queste ultime più sono approfondite più generano competenze utilizzabili. Le faccio un esempio. Conoscere la Divina Commedia potrà non avere effetti immediati sulla capacità di fare di calcolo e quindi sul verificare il resto che ci rendono in un negozio, ma conoscere la Divina Commedia ci dona un’importante capacità critica e di penetrazione del reale che è unica e fondamentale.

 

Con l’introduzione dei Rapporti di Autovalutazione è iniziato un processo di valutazione e autovalutazione dell’operato di scuole e docenti. Questa novità ha suscitato, ancora una volta, numerose polemiche. Cosa sta accadendo?

Tutte le scuole hanno presentato i RAV ma per un problema di risorse la fase di valutazione esterna è stata effettuata su un campione ridottissimo di istituzioni scolastiche. Osservando molte scuole in azione ho potuto vedere due differenti atteggiamenti: in alcuni casi il processo è stato adempitivo, un’ulteriore azione amministrativa e burocratica da ottemperare il prima possibile. Questo non ha prodotto alcun beneficio. Al contrario le scuole che non si sono mosse formalmente hanno colto l’occasione per domandarsi gli obiettivi della propria attività, ragionare sui risultati ottenuti e provare a strutturare percorsi futuri di miglioramento. Nelle scuole in cui questo è accaduto si è ritrovata la ragione per cui si fa il proprio mestiere.

 

Cosa pensa delle annuali graduatorie pubblicate dalla Fondazione Agnelli?

Ne penso male per ragioni tecniche e concettuali.

Partiamo dalla ragione tecnica. La classifica si basa sul rendimento di uno studente di una certa scuola durante il suo primo anno di università. Questo criterio ignora un processo di autoselezione già avvenuto durante la scelta della scuola superiore da parte del ragazzo. E’ difficile attribuire al lavoro di quella scuola il risultato positivo di aver aiutato gli studenti nel futuro. Questa classifica non offre il valore aggiunto che la scuola ha donato negli anni di frequenza.

 

La ragione concettuale è concepire il successo scolastico solamente in funzione della capacità di ottenere buoni risultati all’università. Si sceglie la scuola sull’attesa del risultato futuro e non sulla proposta educativa. Schiacciare tutta l’ipotesi valutativa in quella direzione spinge la collettività a pensare la scuola come funzionale allo step successivo. Sarebbe come stilare la classifica delle università sulla base della capacità che hanno di dare lavoro in futuro. Non condivido questa idea di successo.

 

Lei studia da anni l’autonomia scolastica. Nella scuola italiana questo concetto è stato ridotto e travisato, se non ignorato.

Il vero e grande valore dell’autonomia è la possibilità per le scuole di sperimentare e innovare, slegandosi dalla direzione centrale. Perché questo accada servono delle condizioni: un gruppo dirigente che si prenda la responsabilità e abbia margini normativi d’azione. Dare dei poteri reali. Con la legge 107/15 un passo avanti è stato quello di gestire in autonomia una piccola parte dell’organico. Subito però s’è fatta retromarcia con l’enorme immissione in ruolo attraverso il concorso che di fatto ha privato il dirigente scolastico della possibilità di attribuire i docenti alle singole discipline. Servono maggiori risorse finanziare e la possibilità di scegliere liberamente i docenti. Quest’ultima è la condicio sine qua non per avere una vera e fattiva autonomia.

 

E la parità?

Trovo iniquo che una famiglia debba sostenere delle ingenti spese per mandare il figlio nella scuola paritaria. Questa battaglia deve riprendere con vigore. Se da un lato quella giuridica più o meno è stata raggiunta quella economica è lungi da venire. Così siamo di fronte a una parità solo formale. Ma attenzione: nel ripensare il meccanismo di parità scolastica dovremmo immaginare che le scuole statali godano dello stesso livello di autonomia delle paritarie, a livello gestionale e amministrativo e di selezione dei docenti e non viceversa. Per fare parità bisogna rendere le scuole statali sempre più simili alle scuole paritarie.

  

Se dovesse individuare un modello di scuola a cui guardare quale indicherebbe?

Direi tre: la scuola anglosassone per la capacità di formare un’importante classe dirigente; quella del sud est asiatico per i livelli di competenza misurati; quella scandinava, per la capacità di coinvolgere i ragazzi con una varietà di proposte offerte in maniera non tradizionale. Da questi tre modelli possono essere prese le cose migliori, ma nessuno dei tre rappresenta “una ricetta” riproducibile in toto. La ricchezza del nostro sistema educativo è tale da poter guardare a questi sistemi per poterne trarre delle indicazioni e dei suggerimenti ma poi bisogna costruire soluzioni che valorizzino le nostre ricchezze.

    

A marzo ci saranno le elezioni politiche. Il futuro ministro dell’Istruzione su cosa dovrebbe investire?

Sulla figura del docente. La valorizzazione della sua professionalità, il rilancio della figura del docente come personalità autorevole e culturale che studia, approfondisce, diventa punto di riferimento dentro l’organizzazione scuola, quest’ultima come luogo dove può rinascere l’amore per la cultura e lo sviluppo della persona in tutte le sue sfaccettature. Per fare questo occorrono autonomia e parità come condizioni organizzative e istituzionali.

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