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cattivi scienziati

L'interfaccia neurone-macchina e i cervelli cyborg

Enrico Bucci

Mentre ci si preoccupa inseguendo paure e rischi immaginari, la frontiera della ricerca porta ancora un po’ più avanti una realtà di cui non riusciamo a cogliere vantaggi e rischi, e di fronte alla quale saremo impreparati

Un gruppo di ricercatori ha utilizzato piccole masse di cellule cerebrali umane collegate a un computer per eseguire una forma molto basilare di riconoscimento vocale. Si tratta di una delle più evidenti dimostrazioni delle possibilità che la creazione di cervelli ibridi neurone-silicio offrono. Rispetto ai corrispettivi sistemi di intelligenza artificiale interamente basati sul silicio, i vantaggi delle tecnologie ibride sembrano molteplici: si va dalle maggiori possibilità applicative, grazie all’interazione più efficiente fra neuroni biologici e sensori esterni, all’efficienza energetica molto migliore rispetto alle macchine attuali, tipica dei cervelli biologici, fino alla possibilità di emersione di comportamento intelligente molto superiore a quello delle reti neurali attuali.

Il lavoro appena pubblicato costituisce una prova concettuale che dimostra come non vi siano ostacoli di principio nell’assegnare agli ibridi neurone-silicio gli stessi compiti che oggi si assegnano alle reti neurali classiche. Come usuale per questo tipo di sistemi, organoidi cresciuti per alcuni mesi, larghi qualche millimetro e contenenti fino a circa cento milioni di cellule nervose, sono stati posizionati su un array di microelettrodi, utilizzato sia per inviare segnali elettrici agli organoidi che per rilevare quando le cellule nervose si attivano in risposta. 

Nel caso documentato dal nuovo lavoro, il compito assegnato a questo sistema ibrido è consistito in un semplice esercizi di riconoscimento vocale: gli organoidi dovevano imparare a riconoscere la voce di uno specifico individuo da un insieme di 240 clip audio di otto persone che pronunciavano vocali giapponesi. I segnali audio erano codificati sotto forma di impulsi elettrici che stimolavano parti diverse degli organoidi, e si misurava la risposta elettrica degli organoidi in modo da riconoscere quando in risposta alla voce da riconoscere si producesse un output stabile e ben riconoscibile, corrispondente all’avvenuto apprendimento. Le risposte iniziali degli organoidi avevano una precisione di circa il 30-40 per cento. Dopo sessioni di addestramento di due giorni, la loro precisione è salita al 70-80 per cento, dimostrando così un fenomeno noto come apprendimento adattativo. L'addestramento consisteva semplicemente nel ripetere le clip audio, e non veniva fornito alcun tipo di feedback per dire agli organoidi se stavano facendo bene o male, ciò che è noto nella ricerca sull'Intelligenza Artificiale come apprendimento non supervisionato.

Naturalmente, il sistema così ottenuto è in grado solo di riconoscere una voce dalle altre, non di valutare i contenuti di un discorso; non vi sono tuttavia limitazioni di principio perché non possa, in futuro, essere sviluppato un sistema capace di comportamenti molto più complessi, e bisogna considerare invece che risultati apparentemente più impegnativi – come giocare ad un videogioco – sono stati ottenuti con colture di neuroni di gran lunga più semplici e primitive di quella necessaria al riconoscimento vocale presentata nel lavoro in discussione.Da un punto di vista meramente tecnico, le limitazioni sono invece di natura strettamente connessa alla biologia degli organoidi: al momento, è difficile ottenere una durata maggiore a due mesi per questo tipo di sistemi, e molta parte della ricerca è ancora rivolta ad ottimizzare appunto la stabilità e le condizioni di crescita dei neuroni utilizzati.

Come sempre, tuttavia, il dubbio circa la portata e le conseguenze di una innovazione dirompente come quella descritta sono in campi diversi, e precisamente in quelli dell’etica e della valutazione dei rischi. Sempre più importante, in questo senso, appare il distacco fra i problemi con cui ci si trastulla nelle nostre società, quali quelli inerenti ai possibili danni della carne coltivata, e la realtà che sta velocemente arrivando nei laboratori di mezzo mondo. Del resto, l’ignoranza e l’avversione alla ricerca non consentono di attrezzarsi né eticamente né cognitivamente per i rischi che l’avanzamento delle conoscenze potrebbero comportare; e proprio quei paesi come il nostro, incapaci di una valutazione di ciò che realmente sta avvenendo e abbarbicati a problemi immaginari – la fantomatica invasione, l’identità culturale, le controversie sulle innovazioni in agricoltura – saranno quelli che, alla prova dei fatti, risulteranno più impreparati di fronte a pericoli reali, per essersi gingillati troppo con quelli immaginari.

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