(foto da Wikipedia)

IL NOBEL CHE PARLA ITALIANO

Andrea Rinaldo, il Nobel che parla italiano

Giulio Boccaletti

Assegnato all’ingegnere veneziano il Premio internazionale per l’acqua. Il riconoscimento è uno stimolo per accelerare l’adattamento idraulico ai cambiamenti climatici. Lezioni utili da Stoccolma

Andrea Rinaldo è un ingegnere italiano. Si è occupato di idrologia, morfologia dei fiumi, ed ecosistemi. Sono argomenti che possono suonare alieni alla maggior parte del pubblico ma è proprio per i suoi contributi in queste discipline che il professor Rinaldo è noto in tutto il mondo. Questa settimana è stato insignito dello Stockholm Water Prize, il cosiddetto “premio Nobel” per l’acqua, presentato da Carlo XVI Gustavo re di Svezia e attribuito dall’Accademia Reale di quel paese. Sono andato a Stoccolma questa settimana, in parte, per gustarmi questo momento di eccellenza italiana. I risultati di Rinaldo sono ovviamente merito suo e dei suoi colleghi, non del paese. Sono però sintomatici di una tradizione scientifica della quale essere orgogliosi e che produce ricerca di alta qualità, anche se non sempre brilla per capacità di valorizzazione.

Sono venuto però anche per un’altra ragione. La settimana dell’acqua a Stoccolma durante la quale viene consegnato il premio è anche un congresso che dà il polso di ciò che preoccupa gli esperti di politiche d’acqua in tutto il mondo. Sono discussioni un po’ noiose, altamente tecniche, a volte prevedibili. I problemi cambiano ma le soluzioni non sono un mistero: mobilitare capitale politico e finanziario per ottimizzare la gestione del territorio idrico. Più che i contenuti, Stoccolma è interessante per chi c’è. E’ una cartina tornasole di come paesi e istituzioni stiano affrontando la gestione di questa risorsa, e di chi sia alla ricerca di una comunità internazionale, avendo riconosciuto il problema non come una sequenza di casualità ma come una sfida universale.

Per esempio, appena arrivato a Stoccolma mi sono imbattuto un mio vecchio conoscente del Dipartimento di Stato americano, il quale mi ha raccontato come quest’anno siano venute una trentina di persone da amministrazioni locali e agenzie federali di quel paese. E’ un sintomo, mi ha detto, di un’America che ha cominciato a riconoscere come non ci sia eccezionalismo plausibile quando si parla di acqua. Dal disastro delle tubature al piombo di Flint, nella provincia deindustrializzata del Michigan, alle alluvioni catastrofiche di questi giorni in California, gli Stati Uniti si stanno rendendo conto che il problema di gestire il cambiamento è un problema amministrativo universale, che richiede competenze e risorse. Esperti, tecnici e burocrati americani sono venuti a Stoccolma per immergersi nelle storie di un mondo che, come loro, si sta adattando al futuro.

A valle di due anni difficili, l’Italia ha dimostrato di essere il paese del G7 con la più alta vulnerabilità ai cambiamenti idro-climatici. A Stoccolma, ci si sarebbe potuti legittimamente aspettare un’invasione di professionalità e competenze italiane alla ricerca di contesto e confronto su cosa debba essere il nostro futuro con l’acqua. Dopo tutto l’Italia è un leader storico nell’idraulica. Le esperienze della Serenissima nell’entroterra veneto hanno fatto scuola nell’Europa del Sei-Settecento. Nel Ventesimo secolo, la conversione delle Alpi in centrale idro-elettrica alimentò l’industrializzazione del paese. I distretti irrigui della Pianura Padana sono stati tra i più sofisticati del ventesimo secolo. L’ingegneria civile italiana ha contribuito a trasformare l’idrologia del pianeta. La diga di Kariba sullo Zambesi, che ancora oggi trattiene il più grande lago artificiale del pianeta, fu un progetto degli anni Cinquanta costruito da Fiat Impregit (che poi divenne Impregilo). Ancora oggi la tradizione italiana viaggia. Per esempio, l’ingegneria civile della più grande diga in Africa, la Grand Ethiopian Renaissance Dam sul Nilo, l’ha fatta Salini Impregilo (oggi WeBuild). 

Con queste credenziali, l’Italia dovrebbe essere un paese dominante nelle discussioni sul futuro dell’acqua, come lo sono Paesi Bassi, Cina, Stati Uniti. Invece, come negli anni scorsi, di italiani a Stoccolma se ne sono visti relativamente pochi. Data la natura dei cambiamenti in corso e la fragilità storica del nostro territorio, dovremmo essere protagonisti, non spettatori distanti. C’è però ragione per un cauto, cautissimo ottimismo. Sarà anche un caso che venga premiato un italiano proprio ora, quando l’evidenza impone un cambio di passo nella gestione delle nostre risorse, ma la storia del professor Rinaldo ci ricorda quanto la complessità di una gestione diversa sia suscettibile di analisi e pianificazione.

La prima volta che ho incontrato il nome di Andrea Rinaldo è stato oltre venticinque anni fa, quando mi trovavo a Princeton per il dottorato. Al tempo, nel dipartimento di ingegneria c’era un professore di origine venezuelana, Ignacio Rodriguez-Iturbe, che conoscevo per aver scritto un libro sulla struttura frattale dei fiumi. La tesi di quel testo era che ci fosse una regolarità prevedibile nella morfologia dei bacini idrografici. Mi ricordo ancora le discussioni sull’argomento, al laboratorio di fluido-dinamica geofisica dove lavoravo. Co-autore del testo, assiemo a Rodriguez-Iturbe, era Andrea Rinaldo. 

L’intuizione descritta dai due scienziati è una di quelle epocali, che illustrano come a volte il rigore investigativo sia in grado di rivelare regole profonde che governano la realtà. Immaginate di prendere le cartine geografiche di un insieme di fiumi – il Po, per esempio, o il Rio delle Amazzoni, o il Piave, o il fiume dietro casa vostra se preferite. La scoperta fu questa: se eliminate tutti i dettagli delle cartine a parte il corso d’acqua, se togliete i dettagli del territorio, montagne, città, strade, vegetazione, in mondo da delocalizzarle, vi renderete conto che la struttura geometrica di questi fiumi è simile. Infatti, senza riferimenti geografici è quasi impossibile riconoscere una differenza fondamentale. La struttura dei fiumi è simile in un senso matematico preciso. E’ un fatto straordinario. 

Piove un po’ ovunque sul pianeta. I fiumi si formano ovunque. Tutti hanno dimensioni diverse, attraversano posti diversi, scorrono su geologie diverse, attraversano vegetazione incomparabile. La natura ha infiniti gradi di libertà: ogni goccia d’acqua cade scivolando lungo un sentiero interamente lasciato al caso. Il Nilo comincia nell’Africa equatoriale e sfocia oltre 6.600 chilometri a valle nel Mediterraneo. Il Misa invece è lungo 45 chilometri, nasce sugli appennini italiani e sfocia nell’Adriatico in corrispondenza di Senigallia, cittadina più volte alluvionata ma che non ha nulla ha che fare con il Cairo. Eppure – ed è questa la grande scoperta – se togliete ogni riferimento di scala e osservate la struttura di questi due corsi, scoprirete che sono in un certo senso indistinguibili. Troppo, per essere una coincidenza. 

Questo risultato è importante, e per questo vent’anni fa Rodriguez-Iturbe vinse il prestigioso premio svedese che questa settimana viene conferito anche al professore Italiano. Ma il risultato non è solo una curiosità. Ovunque in natura si trovi invarianza, dovunque ci siano potenti semplificazioni in grado di spiegare fenomeni altrimenti complessi, si nasconde anche la capacità di prevedere e anticipare. E così è stato anche per il lavoro di Andrea Rinaldo. I corsi d’acqua sono fondamentali nell’organizzazione di quasi tutto ciò che succede nell’ambiente terrestre, dalla distribuzione dei patogeni alla vegetazione, alle comunità umane che da essi dipendono. Di conseguenza, l’universalità geometrica della struttura dei fiumi si traduce in prevedibilità statistica dei fenomeni ad essi legati. Questa è l’eco-idrologia, disciplina che il professor Rinaldo ha contribuito a fondare. 

Il lavoro è tutt’altro che accademico. Illumina fenomeni che possono fare la differenza tra la vita e la morte. Così è stato per Haiti, dove le intuizioni del professore si sono tradotte in una potente spiegazione per la diffusione, nel 2010, di una epidemia di colera catastrofica. Solo in quell’anno 170 mila casi dichiarati produssero 3.600 morti, numeri che raddoppiarono l’anno successivo. Haiti non aveva mai sofferto di colera prima di allora. Ma una volta introdotto il vibrione, probabilmente da portatori stranieri sani, si è diffuso con una rapidità straordinaria in un paese con pochissime infrastrutture e che aveva appena sofferto un terremoto epocale. Il lavoro di Rinaldo e colleghi ha dimostrato quanto l’interazione complessa tra infrastrutture carenti, comportamenti umani, condizioni ambientali, organizzati attorno all’idrologia del paese, potesse spiegare la diffusione della malattia. Un risultato importante, che è poi stato applicato ad altri patogeni e che ha dimostrato in maniera urgente come i fiumi non sono solo canali sul territorio, ma sistemi attorno ai quali si auto-organizzano fattori ambientali e sociali che definiscono la nostra vita. 

Torniamo quindi al nostro cauto, cautissimo ottimismo. Poche ore dopo il mio arrivo a Stoccolma sono andato all’Accademia Reale di Agricoltura e Scienze Forestali, dove si è tenuto un seminario a margine del congresso, tutto concentrato sull’Italia. O meglio, sul Po.  Nato da un’intuizione di Antonio Maconi, imprenditore e promotore della cultura scientifica, il seminario ha visto il presidente dell’autorità di bacino del Po, Alessandro Bratti, illustrare agli esperti di Stoccolma la complessità del bacino più grande d’Italia. Il Po contiene il 40 per cento dell’economia nazionale e un terzo della sua produzione agricola. E’ il motore industriale del paese, un’area geografica profondamente votata alle esportazioni, un tessuto industriale con pochi pari in Europa. Ed è un sistema suscettibile di analisi e pianificazione. 

Il problema che ci troviamo ad affrontare nel Po non è semplice, come hanno dimostrato le scarsità persistenti e alluvioni catastrofiche degli ultimi due anni. Bratti ha spiegato agli accademici svedesi come la realtà stesse eccedono le statistiche storiche e quindi i criteri operativi delle infrastrutture esistenti. Siamo in un mondo diverso, che impone non una singola soluzione ma un portafoglio complesso e ampio di interventi sul territorio e sulle nostre abitudini. Un intervento coordinato, sistematico e urgente, che coinvolge tutte le realtà territoriali. Gli svedesi hanno ascoltato con attenzione. Il Po, al contrario di molti altri fiumi europei, ha un piano di bacino coordinato dall’autorità, cosa non banale per un sistema di questa complessità. In più, Bratti ha costruito un gruppo di lavoro di veterani e giovani, reclutati da varie università, che con passione lavorano per descrivere lo stato e il futuro del grande fiume. 

La sessione si è chiusa con i commenti di Rinaldo stesso, che ha enfatizzato come fosse venuto il momento di affrontare un adattamento profondo del sistema. Il Po è dinamico. Il fiume dà struttura geometrica a processi che non sono solo idraulici, ma ecologici, economici, e sociali. Che ci siano cambiamenti in atto è evidente. L’ingegno di una società sta nel riconoscerlo e utilizzare le proprie conoscenze e risorse per gestirlo. Ogni fiume, ogni comunità è profondamente idiosincratica, ma il lavoro del professor Rinaldo, degli esperti di Bratti e di tanti altri nella nostra comunità, dimostra che esistono esperienze e regole generalizzabili. Non tutto è caso ed empirismo. 

La statistica alla quale eravamo abituati se ne è andata. Siamo in una situazione in cui ogni anno porta sorprese, una situazione che ci costringe a ripensare l’idraulica e il nostro rapporto con gli ecosistemi. Possiamo e dobbiamo farlo. In Italia, abbiamo le risorse finanziarie e umane necessarie. Ma per riuscirci dobbiamo tutti – politici, attivisti, e semplici cittadini – imparare a vedere e apprezzare ciò che la scienza e la tecnica ci raccontano di questi sistemi complessi. Anche solo per questo, dovremmo essere tutti contenti che un italiano si sia guadagnato il prestigioso premio svedese. E’ un sintomo cautamente ottimista che, se vogliamo, ce la possiamo fare. 

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