Francesco Lollobrigida (Ansa)

Cattivi scienziati

Una poesia per convincere Lollobrigida sull'infondatezza della "sostituzione etnica"

Enrico Bucci

Chissà se rievocando un omonimo dell'attuale ministro della Sovranità alimentare e utilizzando versi a rima alternata si riesca a essere più chiari in merito alle sue dichiarazioni

Nella Roma della seconda metà dell’Ottocento, si aggirava un singolare personaggio, noto a tutti, pur se dimenticato oggi. Era costui un medico, o per meglio dire uno che aveva studiato medicina, il quale tuttavia si era sempre serissimamente creduto un letterato; uno di quelli, però, dotati di spirito comico che si manifestava soprattutto prendendosi tanto sul serio, da meritare – e vantarsi – dell’appellativo di “poeta cucurbitaceo”, forse sin da quando in un’aula alcuni studenti lo incoronarono in segno d’onore cingendogli il capo di cavoli. Nel “Parnaso Cretino”, serissima rubrica apparsa nel 1927 sulla rivista “La Tribuna”, troviamo un’appassionata descrizione del nostro scritta da Aldo Bianco, che riporta anche il suo notevole tentativo, nel 1886, di candidarsi al Parlamento, con manifesti affissi nottetempo in tutti gli angoli di Roma che promuovevano il “medico cerusico, poeta manzoniano-dantesco, autore di una insuperabile monografia sul volvulo”. Aldo Bianco, nel citato numero della Tribuna, ci informa anche come costui a Roma fosse “la beffa di tutti, l’oggetto di strepitose celebrazioni glorificatrici, che egli prendeva per moneta buona”, delle quali fornisce anche un esempio in un inno d’occasione per lui composto:

“Onore a quel suol,

Che diè l’almo sol,

Quel bel girasol

Di Brigida Lol”

Il nostro “Brigida Lol” era nientemeno che un Lollobrigida, e il suolo natio celebrato in questo disgraziato sonetto era Subiaco; Pietro Lollobrigida nato in quella località, come la Gina nazionale e come il ministro Francesco, che anticipò entrambi nel ricevere l’affettuoso nomignolo di “Lollo”. Se avessi avuto il discernimento e l’accortezza di leggere prima i giornali dell’epoca e le opere di questo illustre antecessore dell’attuale ministro, avrei capito che il tono per farmi comprendere avrebbe dovuto essere diverso da quello usato nell’articolo di ieri; per questo mi proverò, con i miei scarsi mezzi, a tradurre il mio pensiero “à la mode” del Lollo di 150 anni fa, sperando che il registro scherzoso di quel mai dimenticato poeta possa servirmi meglio delle considerazioni del biologo che avete letto ieri. Dunque, ecco i concetti già espressi, volti in stanze a quattro righe, con rima alternata; e se questo mio tentativo dovesse risultar penoso, magari Lollo il vecchio si rivolterà nella tomba per il risultato, e vorrà consigliare meglio di quanto riesca a fare io il ministro e gli Italiani, nell’evitare certe uscite la cui comicità è superata solo dagli echi di un pericoloso ambiente nostalgico e suprematista.

Del cibo nazionale,

volendo discettare,

l’origine reale

è d’uopo ricordare.

Guardando a quel prosciutto,

così tradizionale,

si osservi come è il frutto

del cibo del maiale.

Un cibo che contiene,

ad onta dei somari,

un ben preciso gene,

inserto fra i suoi pari.

Il rosso del Campari,

colore sì perfetto,

è bene lo si impari

proviene da un insetto.

La storia di ogni piatto

è solo un’invenzione

che dato un tempo adatto

si volge in tradizione.

E se per gli alimenti

l’inizio è innovazione

si può restar silenti

su quanto è la nazione?

Di popoli migranti,

per diecimila anni,

son figli tutti quanti

sotto i moderni panni.

Pur dei romani vanti,

di cui certun si béa,

l’inizio è tra i migranti,

un tal nomato Enea.

A chi non piace il mito,

ma a chi Italian si noma,

di tante stirpi il dito

si vede nel genoma.

Perfin quella cultura,

da cui traiamo vanti,

non ebbe mai paura

di mescersi con tanti,

se è vero che di Egizi

di Greci ed altre genti

in Roma gli artifizi

già vinsero le menti.

Circassa era la madre,

e schiava per l’aggiunta,

di chi divenne il padre

del riso di Gioconda;

fra i padri della Chiesa,

d’Ippona oppur di Tarso,

per ogni dove è scesa

la stirpe e il gene sparso.

E dunque vi è soltanto

un tratto identitario

adatto proprio in quanto

è quello più unitario:

un misto di ogni gene,

di credo e di sapori,

che spiega donde viene

l’insieme dei valori.

Non v’è nella nazione

chi vanti un’etnia

senza sostituzione

di quella che fu pria;

non v’è neppur cultura,

fra quelle del paese,

che non da una mistura

abbia sue mosse prese;

e pur nella cucina,

fra tante buone cose,

miscela è la regina,

d’idee d’ogni paese.

E dunque torni appieno

a quel che è più italiano:

ministro non sia scemo,

né il vecchio segua invano!

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