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cattivi scienziati

Perché la guerra del governo alla carne sintetica è antiscientifica (oltre che comica)

Enrico Bucci

Le decisioni dell'esecutivo contro la commercializzazione della carne coltivata segnalano una preoccupante deriva paternalistica. Che ha davvero poco a che fare con una vera analisi scientifica

Assistere al dibattito sulla carne coltivata che si sta svolgendo in Italia, e ascoltare le dichiarazioni di certi esponenti di primo piano dell’attuale governo, è probabilmente una delle esperienze più surreali e stranianti che ci capiterà di vivere – o almeno c’è da sperare che sia così, e che non diventi la norma. Dunque vediamo: annunciando la proibizione della commercializzazione e della vendita sul suolo italico, con tanto di salatissima multa prevista in caso di violazioni, in proposito il ministro Lollobrigida si è spinto a dichiarare che “L’Italia è la prima nazione al mondo a dire no al cibo sintetici e alla cosiddetta carne sintetica: i prodotti di laboratorio non garantiscono a nostro avviso qualità né benessere, né – lo diciamo con orgoglio – la tutela della nostra cultura e della nostra tradizione”.

 

E qui cominciano, da subito, le risate: la cosiddetta “carne sintetica”, infatti, non sarebbe altro che un prodotto a base di cellule coltivate in apposite strutture industriali. Le migliori birre tradizionali tedesche, ma anche di altri paesi, sono prodotte in impianti avanzatissimi che coltivano cellule di lievito secondo i più alti standard qualitativi, con un livello di automatizzazione e con continui controlli di laboratorio per determinarne i parametri prima, durante e dopo la fermentazione; che facciamo, consideriamo la birra come “sintetica”, perché ottenuta da cellule coltivate in appositi laboratori su scala industriale? Già me la vedo, questa campagna: chi beve birra campa cent’anni, ma mica vorremo consentire la crescita controllata in incubatore delle orribili celluline da cui si ricava questo orrendo prodotto di laboratorio?

 

E veniamo al secondo, comico argomento della frase citata: la tutela della nostra cultura e della nostra tradizione. Il mio bisnonno era un allevatore, e introdusse in Basilicata diverse razze di bovini, suini, persino cavalli; non perché intendesse tutelare una qualche “tradizione”, ma perché intendeva sperimentare, seguendo i dettami di quella che allora era la più moderna zootecnica, quali fossero le razze migliori per alleviare l’endemica povertà di un paese come Lagopesole. Le sue opere scientifiche in merito traspaiono di amore per l’innovazione in zootecnica, per lo sforzo applicativo di una conoscenza acquisibile solo con metodi moderni; ed io, suo nipote, non posso che ridere di fronte alla restaurazione e alla difesa di una presunta “cultura tradizionale” italica in tema di zootecnia. Ma ammettiamo pure che esista una zootecnica tradizionale e una cultura da tutelare; ma, dico, dobbiamo tutelare il passato, proponendoci come ci vuole Coldiretti, oppure possiamo smetterla con questo insopportabile passatismo di mercato, e pensare anche all’innovazione e al futuro?

 

Io mi rendo conto che siamo un paese di vecchi: l’unico futuro che la classe dirigente ormai intravede è quello già vecchio, perché inventato dal nulla una cinquantina di anni fa, e ogni possibile innovazione rappresenta un pericolo mortale per un paese anziano, che teme di non poter continuare a vivere nell’epoca di una sua idilliaca giovinezza – con l’accortezza, ovviamente, di inventare un passato ad-hoc, tutto rose e fiori, dimenticando che chi oggi è vecchio e guarda indietro allora guardava con speranza in avanti, cercando di mettersi alle spalle più in fretta possibile ciò che lo aveva preceduto. Le risate, tuttavia, non sono finite con la frase citata: perché, come se non bastasse, è stata ventilata una pretesa ingiustizia sociale, legata a supposti costi troppo alti della “carne sintetica”. E si capisce: ci aspettiamo dunque che adesso si proceda al più presto a proibire la raccolta e la vendita dell’iniquo tartufo, nonché la produzione e lo spaccio dell’ingiusto Brunello di Montalcino, e così via livellando, per evitare disparità dovute alle differenze di potere d’acquisto degli italiani. Non sia mai che dovessimo aumentare quest’ultimo, invece che proibire prodotti troppo cari; anzi, aboliamo pure il lusso delle case di moda, e torniamo tutti all’orbace!

 

Finite le risate – e le lacrime – legate alla visione che la sciorinatura del credo Coldiretti, almeno in questa forma, provoca, è il caso di soffermarsi appena per un attimo a parlare seriamente della carne coltivata, così da venire incontro all’interesse di qualcuno fra i lettori che fosse curioso in merito. Innanzitutto, la carne coltivata è un prodotto che, al momento, non è autorizzato all’immissione in commercio in Europa; questo per la buonissima ragione che, esattamente come avvenuto con la FDA negli USA, le autorità regolatorie del caso devono valutare con attenzione ogni dossier presentato da chi fosse interessato alla commercializzazione di un simile prodotto, un dossier che deve contenere tutti i dati necessari per un’approfondita analisi scientifica. Quindi, parlare di sicurezza e salubrità di qualcosa per il quale non esiste un dossier utile alla valutazione, è come parlare del sesso degli angeli.

In secondo luogo, è opportuno richiamare quali sono i punti di forza vantati da coloro che sono interessati allo sviluppo e alla commercializzazione della carne coltivata. Innanzitutto, vi è un punto etico e morale: si tratta ovviamente di un prodotto “kill-free”, e per chi ha a cuore la vita di animali senzienti e intelligenti, come lo sono quelli di allevamento, questo è il primo, indiscutibile e più importante beneficio. In secondo luogo, vi sono i risvolti di natura ecologica: sulla base di numerose analisi pubblicate in letteratura, si ipotizza che l’adozione della carne coltivata, accoppiata alla graduale diminuzione degli animali d’allevamento, porterebbe benefici in termini di emissioni, energia, acqua e suolo consumati a causa della filiera zootecnica.

 

Invece di richiamarsi alle “antiche tradizioni”, questo è uno dei punti su cui condurre un’analisi scientifica accurata, anzi una metanalisi, perché non è possibile fidarsi ciecamente di chi sta sviluppando i prodotti; per farlo,  però, è necessario consentire ai ricercatori, anche nazionali, di lavorare liberamente, oltretutto anche in modo da identificare soluzioni ove vi fossero problemi sottaciuti. Sarebbe poi molto utile una vera indagine indipendente di tipo econometrico: quali danni potrebbe davvero ricevere il comparto italiano della zootecnia, se questo tipo di prodotti fossero immessi nel nostro mercato? Ad oggi, disponiamo di svariate indagini preliminari, ma queste sono intanto riferite a territori diversi dal nostro, ed in secondo luogo sono spesso piagate da conflitto di interesse (sia a favore che contro); tenendo fuori Coldiretti e tutte le associazioni di categoria, la comunità scientifica nazionale sarebbe ben in grado di dare un contributo utile ad una scelta seria, se solo si volesse agire razionalmente invece di cercare 40-50.000 voti in più.

 

Sin qui le considerazioni di un ricercatore, ma ce ne è una finale, quella di un cittadino preoccupato per la paternalistica invasività di questo governo. Han cominciato a voler decidere chi possiamo sposare ed amare, ed ora anche cosa possiamo mangiare: fuori dai nostri letti e dai nostri piatti.

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