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Gestire l'ambiente

La tragedia del ghiacciaio, ennesimo richiamo a una trasformazione del territorio

Giulio Boccaletti

La sfida oggi è quella di dotare il paese di strumenti per affrontare il nuovo contesto climatico

Il rovinoso crollo di un pezzo di ghiacciaio nel cuore delle Dolomiti è l’ennesimo sintomo di un cambiamento che si sapeva sarebbe arrivato. La storia è nota. Nel corso di due secoli, le attività umane hanno cambiato la composizione dell’atmosfera in maniera misurabile. L’iniezione di anidride carbonica ne ha aumentato l’opacità alla radiazione infrarossa, producendo un riscaldamento del clima e inducendo un cambiamento della dinamica di quest’ultimo. Poiché il clima si manifesta nei fenomeni idrici, è inevitabile che ghiacciai, fiumi, falde, temporali siano messaggeri del futuro che si aspetta. 

 

Fin qui il problema. Poi si tratta di decidere cosa fare. Se è chiaro che l’eliminazione dei combustibili fossili dall’economia globale è un passo decisivo per evitare problemi ingestibili – per capirsi, se il mondo facesse l’errore catastrofico di lasciar sciogliere la Groenlandia e l’Antartide, eventualità improbabile ma non impossibile nel lungo periodo, il mare Adriatico sommergerebbe la Pianura Padana fino a Piacenza – è anche vero che i fatti delle Dolomiti dimostrano ancora una volta come siamo impreparati a gestire il cambiamento in atto.

 

Da anni si sa come il Mediterraneo sia un cosiddetto “hotspot” del cambiamento climatico: un luogo di estrema vulnerabilità nel quale i cambiamenti saranno più pesanti della media. L’Italia ne è centro geografico e cuore. Il problema ha due parti: il cambiamento delle condizioni climatiche e la nostra capacità di gestirle. 
Il fatto che gli eventi della Marmolada siano diventati tragedia non è solo dovuto al cambiamento delle temperature, ma anche al fatto che la comunità degli escursionisti non è abituata a considerare i ghiacciai come strutture dinamiche in estate.

 

Lo stesso vale per la scarsità d’acqua. Lo stato catastrofico dei fiumi del nord non è solo il prodotto di una minore precipitazione, ma anche dell’incapacità di gestirli attraverso una riallocazione tempestiva delle risorse e dell’insufficienza nella dotazione infrastrutturale. 
La sfida è quella di dotare il paese di strumenti che permettano di affrontare il nuovo contesto: una pianificazione del paesaggio che tenga conto di nuovi profili di rischio, una diversa gestione del territorio e delle sue risorse, investimenti in un’idraulica che possa mediare precipitazioni più variabili, accumulando acqua quando piove per distribuirla quando non c’è.

 

Si può fare. Non è la prima volta che il paesaggio italiano viene trasformato in funzione delle esigenze economiche e sociali del paese su scala nazionale. Solo nell’ultimo secolo e mezzo l’Italia ha affrontato due tali trasformazioni, entrambe in risposta a profondi cambiamenti – in questo caso socioeconomici – in cui si trovava a operare il paese. 
La prima fu quella delle bonifiche agrarie. Già alla fine del Diciannovesimo secolo oltre un milione di ettari furono bonificati, grazie a contributi statali e un forte coinvolgimento del settore agricolo. L’obiettivo era di salute pubblica – al tempo si pensava che la malaria fosse dovuta alle esalazioni da acquitrini – ed economico: far fronte a un’esplosione demografica e sostenere con l’agricoltura la prima industrializzazione. 

 

La seconda fu quella dell’immediato dopoguerra, quando, nel giro di un decennio circa, la capacità idroelettrica installata più che raddoppiò, convertendo i fiumi dell’arco alpino in una enorme centrale elettrica, alimentando il miracolo economico e industriale del paese. 
Questi non sono esempi particolarmente virtuosi o esperienze da imitare. Più limitatamente, dimostrano che, quando è stato necessario – seppur con errori e costi imprevisti – l’Italia ha investito nel proprio territorio a una scala commensurabile a sfide di portata nazionale. E tale è la sfida che ci troviamo ad affrontare ora.

 

Non è un caso che il tragico crollo sulla Marmolada sia successo adesso. Si tratta di un nuovo sintomo dello stesso fenomeno che ha causato la siccità. Le condizioni al contorno stanno cambiando ed è fondamentale che la nostra risposta sia commensurata alla portata del problema.
Per esempio, la nomina di un commissario speciale per la siccità, un’iniziativa emersa in questi giorni sulla falsariga di un simile commissario per la pandemia, non è una cattiva idea. Affrontare l’emergenza sul territorio coinvolge le competenze di vari ministeri, autorità regionali e locali. Non c’è dubbio che il problema vada gestito in maniera unitaria. 

 

Ma è necessario definire i contorni del problema in maniera corretta. Il disastro della Marmolada, oltre a essere una tragedia umana, ci ricorda che il contesto in cui stiamo agendo non è solo quello della siccità, ma è anche quello di un cambiamento in tutto il nostro territorio, che si esprime anche attraverso la scomparsa dei ghiacciai e le alluvioni distruttive che con ogni probabilità ci troveremo ad affrontare nei mesi successivi all’estate. 
Serve una strategia unitaria per affrontare l’ampio spettro di problemi che ci aspettano. Il clima sta cambiando. Il territorio sta cambiando. Dobbiamo cambiare anche noi. 

 

Giulio Boccaletti è ricercatore onorario associato alla Smith School di Oxford e autore di “Acqua: Una Biografia” (Mondadori).

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