(foto LaPresse)

Mutazioni virali

Enrico Bucci

Il Covid si adatta, ma è presto per dire se questo comporti forme più o meno letali, più o meno infettive

Il virus sta mutando. Ne abbiamo già parlato, e abbiamo già detto che sarebbe meglio immaginare che siamo di fronte non ad un singolo agente infettivo, ma ad una popolazione in rapida variazione sia per l’emersione di nuove varianti che per la rappresentatività di queste varianti virali nella popolazione totale, che muta sotto l’inflessibile selezione darwiniana in atto.

  

Tuttavia, vorrei ribadire alcuni concetti che paiono sfuggire in questo periodo a chi troppo presto si lancia in affermazioni circa l’emersione nella popolazione di varianti più letali, che avrebbero preso per esempio il sopravvento in Europa, o viceversa della transizione che sarebbe in atto verso forme meno letali, la cui testimonianza sarebbe rappresentata dal minor numero di pazienti in condizioni gravi per esempio negli ospedali italiani.

  

Come mai si sente dire che pazienti sempre meno gravi stanno arrivando nei nostri ospedali? Innanzitutto, i bias di selezione potrebbero giocare un ruolo importante. Se un’epidemia sta declinando, pazienti che prima non trovavano nemmeno posto negli ospedali strapieni di casi gravi cominciano invece ad essere ammessi; questi sono in genere casi che sarebbero precedentemente stati scartati sulla base della loro minore gravità.

 

Inoltre, si ha quello che si chiama un “effetto coorte”: il grosso di chi ha subito gli effetti più gravi del virus è già passato per gli ospedali, essendo più suscettibile per ragioni logistiche o anagrafiche; ormai si vedono le code dell’epidemia, che tendono ad essere composte maggiormente da individui con sintomatologia più lieve.

 

Dunque, la minor gravità degli ospedalizzati attuali è un’indicazione dell’uscita dalla fase epidemica peggiore, non necessariamente il segno di un adattamento benigno del virus.

  

Per dirimere la questione, basta guardare ai dati. In questo momento, sono disponibili svariate migliaia di sequenze ottenute da isolati virali, che hanno permesso di identificare diverse centinaia di varianti del virus con mutazioni non silenti, cioè mutazioni il cui risultato finale è una variazione in una proteina del virus – e dunque un virus leggermente diverso dal suo progenitore.

 

Tuttavia, il campione di cui disponiamo, oltre ad essere piccolo rispetto alla popolazione totale del virus, è soprattutto un campione non rappresentativo: il modo cioè in cui sono stati scelti gli isolati da sequenziare non è né casuale né privo di bias di vario tipo. Il risultato finale è che le mutazioni che appaiono più o meno frequenti nel campione di cui disponiamo non è affatto detto che siano rappresentate con frequenza simile nella popolazione complessiva, ed anzi molto probabilmente non lo sono. Varianti che ci appaiono molto comuni nei nostri database, non lo sono necessariamente in natura; e non sappiamo quale sia la reale loro abbondanza e distribuzione.

 

Inoltre, e questo è il punto più importante, al momento non esistono dati che correlino la presenza di una certa mutazione al decorso della malattia in pazienti umani; al contrario, nei pochissimi studi in cui si è andati a valutare l’effetto delle mutazioni del virus, i dati che in vitro indicano una maggiore aggressività su cellule umane – quelli che hanno fatto pensare ad una variante europea più aggressiva, a causa della diffusione della mutazione D614G – non correlano per nulla con la gravità dei sintomi dei pazienti dai quali quel virus è stato isolato. Allo stesso modo, altre varianti importanti del virus – un ceppo con la delezione di quasi tutta la proteina ORF8, isolato nei pazienti di Singapore, ed un altro con delezioni importanti nella proteina ORF7, isolato in Arizona – testimoniano per ora solo l’estrema plasticità del genoma virale, ma non sappiamo che effetto abbiano.

 

Infine, come correttamente evidenziato da ricercatori dell’università di Glasgow in un lavoro pubblicato da poco, bisogna tener presente che molti dei manoscritti che analizzano le mutazioni fin qui emerse, pubblicati sotto forma di preprint con titoli roboanti, spesso non tengono conto degli errori di sequenziamento o usano metodologie di analisi bioinformatica obsolete ed erronee; questo è abbastanza normale per manoscritti che non hanno passato ancora la peer review, ma i giornalisti riprendono gli studi senza avere le competenze tecniche necessarie per scoprirne gli errori.

  

Per tutti questi motivi, parlare oggi di adattamenti del virus che comportino maggiore o minore patogenicità, maggiore o minore infettività, sulla base dei dati genetici appare prematuro; quei dati sono utili a ricostruire la filogenesi del virus, non a rappresentare la composizione della popolazione virale in termini di mutanti, che comunque non sono stati associati ancora a nessuna particolare virulenza, minore o maggiore che sia, rispetto ai primi isolati.

  

Cerchiamo di non confondere le nostre speranze e le nostre aspettative con quel che i dati ci dicono finora.

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