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Mercati in corsia

Le case di comunità non sono la risposta ai problemi cronici della sanità

Gilberto Corbellini e Alberto Mingardi

La domanda di salute sarà sempre più individualizzata ma in Italia si pensa di far fronte agli ospedali pieni con la burocrazia

Chi ha più di trenta o forse meglio quarant’anni, quasi di sicuro ha visto qualche film dedicato alla coppia Don Camillo e Peppone, cui prestavano il volto Fernandel e Gino Cervi. I due bisticciavano con particolare veemenza quasi su tutto, ma in particolare quando il sindaco di Brescello decide di costruire nel paesino della bassa una “casa del popolo”. La formula delle “case di comunità”, che dovrebbero diventare uno dei perni del servizio sanitario nazionale, riporta un po’ nella mentalità a quell’epoca e a quelle vicende. Un mondo di oratori e “città giardino”, al quale il Partito comunista provava a rispondere con una sua alternativa di “socialità”, per radicarsi nella cattolicissima pianura padana.

Oggi le case di comunità sono il nuovo luogo nel quale verranno forniti tutti i servizi sanitari di base per costituire un “punto di riferimento continuativo per la popolazione” e seguire i malati cronici. Sono 1.288 le case di comunità che verranno aperte entro la metà del 2026, o così almeno prevede il Pnrr. Il piano è abbastanza dettagliato e assume a modello le case di cura progettate e finanziate dalle politiche sanitarie nelle regioni Toscana ed Emilia Romagna, certamente non confrontabili con le realtà sociali ed economiche di altre zone del paese che possono essere più o meno industrializzate, ma soprattutto molto diversamente attrezzate per quanto riguarda la capacità di fornire servizi equivalenti per efficacia e professionalità.

La prima differenza che salta all’occhio rispetto a case del popolo, oratori e città giardino è che le case di comunità per la salute sono concepite secondo un modello uniforme, rispecchiano una filosofia comunitaria che appiattisce la diversità della domanda di salute, mentre nonostante tutto Don Camillo e Peppone cercavano di andare incontro a diversi bisogni individuali. Il che è paradossale, visto che l’innovazione tecnologia e l’esperienza socio-culturale nelle società fondate sull’informazione individualizzano le aspettative. E’ singolare che l’idea di comunità che circola oggi sia molto più appiattita di quelle di un mezzo secolo o di un secolo fa: le possibilità di scelta sono straordinariamente aumentate nel tempo, ma sembra che noi crediamo sempre di più che le persone che vivono in una comunità tendano ad avere le stesse preferenze.

Intanto, si fa una certa fatica a chiamare case di comunità dei luoghi che dovrebbero rivolgersi a popolazioni variabili tra 10/15 mila in aree rurali e 30/35 mila in aree metropolitane: chiamare “comunità” gruppi tanto grandi e pensare che riescano a rispondere alla domanda di salute, particolarmente esigente, dei pazienti con disturbi cronici è un singolare esercizio di ottimismo. Gli psicologi sociali hanno dimostrato che il concetto intuitivo che noi abbiamo di “comunità” è tarato su poche centinaia di persone con le quali riusciamo a stabilire senza grossi sforzi legami significativi.

Non è solo il nome improprio a indurre al sorriso. Le cronicità sono e saranno il vero problema dei sistemi sanitari nelle società occidentali. Il modo per affrontare i contraccolpi di una buona notizia quale è l’allungamento della vita media però ha scarsamente a che fare con una dimensione “comunitaria” o necessariamente pubblicista. Le cronicità rappresentano un grande serbatoio di bisogni, ovvero – detto brutalmente – il lato della domanda di un grande mercato. E’ su questo che si dovrebbe fare leva per migliorare la vita delle persone e vedere, come già è avvenuto in passato, ridursi l’impatto debilitante di molte patologie.

Il modo in cui si sta pensando alle malattie croniche non sembra tener conto del fatto che le principali sfide avranno a che fare con gli effetti di queste patologie sulla capacità dei malati e quindi sulla relazione tra paziente e medico o struttura sanitaria. Proprio per la natura della cronicità (un problema protratto nel tempo) il miglior interesse del malato è meno chiaramente definibile, senza un dialogo costante e continuo. Nelle descrizioni delle case di comunità l’enfasi è solo sugli aspetti propagandistici pure annaffiati di dettagli para-organizzativi, il lavoro in team, le professionalità, l’età. E’ abbastanza chiaro però che il ministro Speranza e i suoi tecnici li pensano come luoghi dove si rendono dei pazienti dipendenti da protocolli piuttosto che aiutarli a riguadagnare autonomia. La tradizionale dimensione della libera professione, simmetricamente, pare destinata ad assottigliarsi.

Malgrado si parli di centralità del paziente inteso implicitamente come individuo, si tratta di un paziente standard del tutto fittizio, che non esiste nelle realtà. La scelta, fra modelli organizzativi, in realtà è a monte.

Quella della salute nel mondo moderno è un’industria: un’industria nella quale lo stato rappresenta spesso, nei sistemi sanitari a trazione pubblica come il nostro, il lato della domanda e nella quale ogni tanto assume una funzione essenziale svolgendo ricerca di base. Ma un’industria nondimeno: complessa sul piano organizzativo, articolata a livello internazionale (le “multinazionali del farmaco”, non a caso), capace di mobilitare risorse molto eterogenee a vantaggio dell’obiettivo di migliorare la vita dei pazienti.

Un’industria mossa, come tutte, dal motivo dell’autointeresse: dal profitto. Ritorna sempre, in sanità, un antico tabù: non si deve fare profitto sul malato o sulla salute (per quanto l’idea, e per fortuna, non si estenda dalle istituzioni ai loro impiegati). Il fatto è che storicamente è stato il profitto, che ha premiato l’innovazione, a indurre i governi a creare dai primi anni del Novecento alcune regole che hanno reso la pseudomedicina distinguibile dalla medicina “scientifica”. E’ grazie al motivo del profitto se abbiamo assistito a un’espansione mai vista prima della capacità della medicina di produrre salute.

Alcuni osservatori (per esempio, Matt Ridley) sostengono che fra le poche eredità positive della pandemia ci sarà una esplosione di innovazione, dovuta in parte agli avanzamenti di questi ultimi due anni (in particolare la tecnologia dell’Rna messaggero) e in parte al fatto che la nuova percezione dei rischi sanitari naturalmente “chiama” investimenti. Del resto è stato così nel passato quando abbiamo dichiarato guerra al cancro, alle malattie cardiovascolari, etc. con la conseguenza che l’innovazione tecnologica è esplosa e con essa si sono agganciati reciprocamente il profitto e l’acquisizione di benefici dai nuovi trattamenti. Tutto si può fare fuorché prevedere il futuro dell’innovazione ma tutto sommato non è folle aspettarsi che le nuove tecnologie informatiche e genetiche, tra loro combinate, consentiranno di personalizzare e rendere sempre più precisi i trattamenti, offrendo comunque dei ventagli di opzioni all’interno dei quali potranno decidere dei pazienti informati. Le vere comunità saranno probabilmente virtuali: pazienti con esigenze simili, che potranno essere messi in contatto con professionisti specializzati.

Lo scopo principale delle case di comunità è quello di decongestionare i pronto soccorso, gestendo direttamente con uno staff di medici e infermieri i codici bianchi, e di limitare l’assalto agli ospedali. Queste strutture però avranno anche la conseguenza di ridurre ulteriormente le professionalità e il ruolo dei medici di medicina generale, le cui motivazioni sono ormai ai minimi termini.

L’assistenza sanitaria, a causa dei suoi alti costi iniziali e della sua centralità per le persone e le comunità, è spesso considerata “diversa” o meglio lasciata fuori dal dominio dei mercati. Ma tale obiezione non è basata soltanto su una visione stereotipata dei mercati come regno dell’egoismo senza cuore, ma ignora pure un fatto essenziale: la salute è un fatto eminentemente individuale. Lo avevano capito già i medici ippocratici e oggi la medicina propone trattamenti sempre più personalizzati, e la personalizzazione è tanto migliore quanto più è fondata su tecnologie e conoscenze che derivano dalla genetica e dai big data.

L’economia di mercato è il regno dell’individuo. Nel mercato, le persone possono dimostrare le loro preferenze per diversi beni e servizi esercitando una scelta. Questo produce informazioni che consentono anche ai detentori delle risorse di impiegarle nel modo migliore, quello più “sociale” perché più congruente con le necessità della società. Inoltre, la libertà di mercato consente alle persone di proporre soluzioni per quelli che interpretano come problemi: molto spesso falliscono, ma gli incentivi sono tali che anche i tentativi andati a vuoto finiscono per diventare informazioni utili per metterne a punto di nuovi.

I mercati si basano sulla cooperazione volontaria, nel senso che le decisioni delle imprese, degli individui e dei ricercatori non sono imposte a nessun altro.

Un impulso innato ci induce a credere che se ci mettiamo nelle mani di qualcuno per la fornitura di un servizio, anziché scegliere fra più fornitori, ne avremmo una vita più semplice. In realtà non è così, e i monopoli si trasformano in prassi coercitive (o mangi questa minestra o salti dalla finestra), perché chi controlla un’attività monopolista non ha interesse a investire in innovazione, tende a limitare l’offerta e a non pensare a migliorare la qualità. La nostra intuizione, che poteva essere ragionevole nel mondo preistorico, oggi non ci consente di risolvere meglio il problema. Al contrario. Similmente, i nostri bias ci ingannano tragicamente quando discutiamo di brevetti. Intuitivamente, ciò che non riusciamo a capire è che il brevetto è stato e in parte rimane uno strumento formidabile proprio per ridurre le asimmetrie informative nello spazio dell’innovazione, e quindi è un fattore di propulsione per consentire trattamenti migliori e a costi sempre più accessibili.

La ragione per cui l’assistenza sanitaria è in qualche misura collettivizzata in tutti i paesi sviluppati ha a che fare soprattutto con ciò che intuiamo essere giusto ed equo. La stragrande maggioranza di noi chiederebbe che tutti abbiano accesso all’assistenza sanitaria, indipendentemente dal reddito o dallo status.

Tuttavia, se seguissimo questi nostri istinti perderemmo i benefici che i mercati possono portare. I mercati non sono perfetti, perché perfetti non sono gli esseri umani. Ma, nel mondo del pressapoco in cui viviamo, sono fra le istituzioni che funzionano meno peggio. Le persone cooperano e questo avviene proprio perché il mercato richiede e genera cooperazione sulla base di scambi a somma non zero. Per quanto riguarda l’informazione imperfetta, questa è una condizione che troviamo ogni volta che acquistiamo qualcosa, anche se nel caso della salute le scelte sono più cariche di emozioni e aspettative.

I mercati possono fornire benefici reali, ma solo in un ambiente che sia impegnato a lasciarli funzionare, e regolato al fine di correggere alcune incapacità e sostenere scelte che sono nell’interesse della comunità e urgenti. I sistemi sanitari di maggior successo consentono che chi fornisce un servizio inadeguato o inutile possa uscire dal mercato. Inoltre, in questi sistemi ci sono informazioni adeguate su attività, costi e qualità dell’assistenza per prendere decisioni di investimento; acquirenti motivati sono liberi di comprare selettivamente, ovvero hanno la capacità di analizzare l’offerta e la libertà di stipulare contratti con fornitori alternativi in casi di servizio scadente; i fornitori sono in grado di investire per migliorare i servizi ed essere pagati di più, o essere ricompensati con più clienti, se i pazienti pensano che stiano facendo un lavoro migliore di altri. La regolamentazione assicura (per esempio, nel caso olandese, per citare uno stato insospettabile di neoliberismo) che la copertura universale sia protetta e garantita, cioè che siano rispettati standard minimi di qualità e di finanziamento e che la politica della concorrenza sia applicata. I fornitori e gli assicuratori/committenti dovrebbero essere in grado di risparmiare e generare capitale per finanziare l’espansione.

Tale impostazione è forse l’unica possibile se ci rendiamo conto che i fornitori di servizi sanitari sono impegnati a somministrare cure che sono di per sé il prodotto di complesse catene di fornitura internazionalizzate e che vivono in una complessa osmosi fra ricerca e produzione. La sanità è un’industria e le nostre fiches per un futuro migliore stanno proprio sul suo elemento più industriale: l’industria del farmaco. Vagheggiare un’erogazione strapaesana di trattamenti a così elevata complessità è solo l’ultima tappa nella più intima contraddizione dei sistemi sanitari contemporanei: il fatto che mettiamo burocrazie, ogni tanto d’impostazione sovietica, a gestire i prodotti dei sistemi della ricerca più complessi, globalizzati e “mercatisti”.

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