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cattivi scienziati

Sulla terza dose, Ema alimenta la confusione per equilibrismo politico

Enrico Bucci

L'Agenzia europea per i medicinali ha rilasciato un messaggio sconcertante: invece di regolare con decisione, scarica la responsabilità della decisione sulle autorità sanitarie nazionali. Invece dovrebbe seguire l'esempio della Fda americana: Aifa lo ha fatto

Una delle proprietà fondamentali che deve avere il linguaggio di un’agenzia regolatoria, soprattutto durante una pandemia e soprattutto quando si rivolge al pubblico, è la chiarezza. L’Ema è la più importante agenzia regolatoria da cui dipendiamo per indicazioni circa l’utilizzo di vaccini e farmaci; ed è anche una delle meglio finanziate e più ricche di esperti, in grado di affrontare con la massima preparazione e con la massima efficienza ogni discussione rilevante che sia di interesse per l’agenzia stessa e per il cittadino.

 

Terza dose vaccino, perché l'Ema aumenta la confusione a livello europeo

 

Eppure, Ema ha rilasciato qualche giorno fa un messaggio sconcertante circa la necessità, la sicurezza e l’efficacia di una terza dose di vaccino. Come giustamente ha sintetizzato sulla Stampa Antonella Viola, l’immagine che emerge da questo comunicato è sostanzialmente quella di una mancanza di linea, un’immagine che esprime di più la necessità di equilibrismi politici che quella di una chiara e precisa informazione alle istituzioni e al cittadino – fosse anche la semplice informazione circa l’insufficienza dei dati disponibili per esprimere un giudizio.

Il comunicato inizia affermando che è possibile somministrare una terza dose di vaccino a coloro che hanno un sistema immune indebolito (per varie ragioni), purché siano trascorsi almeno 28 giorni dalla seconda dose. La terza dose, in questo caso, è denominata “dose extra”; e appena fornita questa indicazione, utile anche se non proprio decisa, comincia immediatamente l’inutile confusione. Ema ci informa infatti che la “dose extra” per le persone immunocompromesse non è da confondersi con una dose aggiuntiva “booster” per i soggetti in buona salute; per questi soggetti, si raccomanda di aspettare almeno 6 mesi prima di somministrare il booster, ma – attenzione – si scarica la responsabilità della decisione sulle autorità sanitarie nazionali. In sostanza, si dice che, se proprio si vuole, si può somministrare anche una dose ulteriore ai soggetti sani già vaccinati, purché si aspettino sei mesi; ma per l’analisi dei dati di efficacia e sicurezza, si rimpalla al regolatore nazionale, senza pronunciarsi.

Al contrario, la Fda americana è stata molto più decisa: ha limitato la somministrazione di una terza dose a popolazioni ben precise – popolazioni a rischio alto di contagio a causa della propria professione, non solo rischio clinico – e per tutti gli altri ha rigettato con chiarezza l’ipotesi, in attesa soprattutto di dati ulteriori circa la sua utilità, data la situazione attuale. In questo, Fda si è messa di traverso agli stessi annunci dell’amministrazione Biden, che intendeva rivaccinare tutti, ma, come sostenuto da Fauci, ha fondato la sua decisione solidamente sulla scienza, e quindi ha sostanzialmente deciso bene. Notate la differenza: da una parte, un regolatore che rinvia ai desiderata delle singole nazioni europee, dall’altra uno che impone ai singoli stati un limite preciso, e che argomenta in maniera dettagliata questo limite, senza oltretutto introdurre strane differenze fra “dose extra” per gli immunocompromessi e “dose booster” per tutti gli altri.

La confusione è già troppa sotto il cielo pandemico perché si possa pensare di dare indicazioni deboli e soggette all’interpretazione a livello nazionale; per fortuna, almeno in Italia, Aifa ha espresso la propria posizione in maniera molto meglio argomentata, e tutto sommato non distante da quella di Fda, assumendosi la responsabilità di dare indicazioni precise; tuttavia, questa volta è necessario richiamare Ema alla sua responsabilità di decisore tecnico-scientifico, che non può cercare compromessi politici per soddisfare le visioni delle diverse politiche sanitarie negli stati europei, ma che al contrario deve combattere quelle diversità e spingere verso uno standard comune. Il virus non cambia sulla base delle decisioni dei singoli stati, e non è dunque possibile che ciascuno faccia di testa propria.

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