Un'immagine del reparto di terapia intensiva dell’Ospedale Poliambulanza di Brescia (foto LaPresse)

Gli ospedali tra eroismo e contagio

Claudio Cerasa

Perché, senza essere protetti, i medici da eroi possono diventare parte di un problema

Tra i molti numeri che ci vengono offerti quotidianamente per provare a capire in che modo il coronavirus sta cambiando le nostre vite – e soprattutto quelle dei nostri medici – ce ne sono due che forse più di altri meriterebbero di essere urgentemente evidenziati. Il primo numero è 7.900. Il secondo numero è 4.824. Il primo numero, che è un numero da orgoglio, si riferisce alla quantità di medici volontari che ha risposto all’appello lanciato la scorsa settimana dal governo per rafforzare la task force della Protezione civile: i posti disponibili erano 300, i volontari che si sono candidati sono stati 7.600 in più.

 

Il secondo numero, che è un numero da spavento, si riferisce invece al numero di operatori sanitari che, alla data del 23 marzo, sono risultati contagiati dal coronavirus. Si tratta, per quello che valgono i paragoni con i numeri offerti da una dittatura, di un numero doppio rispetto ai contagi degli stessi operatori registrati in Cina. E si tratta del 10 per cento dei contagi totali registrati nel nostro paese, per un totale di diciannove medici deceduti a causa del Covid-19. Numeri confermati, a Roma, dal presidente dell'ordine dei medici, che ieri ha fatto sapere che i medici contagiati nella capitale sono 84, il 13 per cento dei contagiati totali. Numeri confermati anche dai dati che arrivano dalla Sardegna, dove un contagiato su due fa parte del personale sanitario, con punte del 90 per cento a Olbia e a Sassari.

 

Sono numeri spaventosi che ci mostrano un'altra verità inconfessabile relativa al dramma del coronavirus, sintetizzata ieri sull’Atlantic dallo staff writer Mike Giglio: “La più grande preoccupazione per i medici che combattono la pandemia, e che ogni giorno rischiano la vita per questo, è quella di passare dall’essere parte della soluzione a parte del problema”. E’ un dramma nel dramma che diventa ancora più grave se si prendono in considerazione i numeri della regione più colpita d'Italia, la Lombardia, che da sola rappresenta il 47 per cento di tutti i contagiati d'Italia, e il 64 per cento dei morti da coronavirus, e che da sola ha il 77 per cento degli operatori sanitari contagiati.

 

E allora la domanda sulla quale occorrerebbe riflettere, con distacco e serietà, è: che cosa è andato storto? E cosa si potrebbe fare per evitare che gli errori commessi su questo fronte possano contribuire a rendere più lenta, per l’Italia, l’uscita dalla sua quarantena? Un primo tema lo coglie bene in un articolo che uscirà domani sul Foglio il nostro Roberto Volpi e riguarda un fatto difficilmente contestabile: più un sistema sanitario è portato a ospedalizzare i suoi pazienti e più di fronte alla diffusione di un virus infettivo quel sistema sarà destinato al collasso. In Lombardia, per esempio, il 57 per cento dei contagiati si trova ricoverato in ospedale, un tasso molto elevato rispetto per esempio a quello del Veneto, dove il ricovero dei contagiati avviene nel 29 per cento dei casi, nonostante l’età media dei contagiati sia la stessa.

 

Che fare? Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con il personale sanitario sa che di fronte a una malattia infettiva le cure a domicilio, per i pazienti con sintomi leggeri, e le cliniche mobili, dotate di tutti i macchinari del caso, potrebbero essere delle valide alternative per allentare la pressione sugli ospedali. E per proteggere i medici, con i fatti e non solo con le chiacchiere, andrebbe incoraggiato l’isolamento dai familiari del personale sanitario, andrebbe tamponato tutto il personale (lo si fa con le squadre di calcio, lo si può fare anche con i medici), andrebbero creati ospedali dedicati unicamente al Covid-19, andrebbe mandato a casa tutto il personale non direttamente coinvolto nella lotta al virus, isolandolo e mettendolo nelle condizioni di sostituire al momento giusto il personale ammalato. Per arrivare a una simile svolta culturale e filosofica occorrerebbe però prendere coscienza di un problema di cui oggi sembra non esserci sufficiente coscienza: iniziare a trattare i medici non come dei semplici eroi che cadono fatalmente in guerra ma come degli eroi che senza essere protetti possono diventare parte di un problema. Prima lo faremo e prima il contagio si fermerà. Forza e coraggio.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.