Un manifestante no vax (foto Imagoeconomica)

Numeri utili per capire perché non dobbiamo smettere di vaccinare

Francesco Bechis

9 milioni di morti evitate negli ultimi 16 anni grazie ai vaccini. “Date per scontato tutto, non la salute”. Un convegno a Roma

Roma. Date per scontato tutto, ma non la salute. E’ un monito che arriva puntualissimo, ai tempi d’oro dei No Vax, quello emerso dal convegno organizzato al Senato da Formiche e Gsk, una delle più grandi aziende internazionali di vaccini, farmaci e prodotti di benessere al mondo, dal titolo: “Global Health. L’Italia driver di best practice”. Per sfatare i falsi miti è sempre buona cosa partire dai numeri, che non lasciano spazio a interpretazioni. “Solo negli ultimi 16 anni 640 milioni di bambini sono stati immunizzati e 9 milioni di morti evitate grazie ai vaccini”, ha spiegato in apertura del convegno David Salisbury, luminare e associate fellow della Global Health Security presso la Chatham House.

 

Solo una settimana fa, per dirne una, i laboratori di ricerca Gsk, azienda con una storica e radicata presenza industriale in Italia, hanno scoperto risultati molto promettenti per un vaccino contro la tubercolosi, una piaga che fuori dall’Europa fa 1,6 milioni di morti l’anno. Per dirla all’inglese con Salisbury, “molto abbiamo conquistato, molto ancora c’è da conquistare”. Anche in Europa, dove, riporta un recente rapporto Eurostat, il 29-30 per cento delle famiglie ha difficoltà di accesso alle cure.

 

L’Italia rompe record su record, da una parte e dall’altra. Una ricerca del 2016 citata in un rapporto della Commissione Ue certificava che in Europa gli italiani sono i più scettici sui vaccini. “E pensare che l’Italia è stato uno dei paesi promotori e finanziatori della strategia globale per debellare l’Ebola, è il terzo paese produttore di lavori scientifici al mondo, ha donato milioni di euro al Global Fund per la ricerca su Hiv e tubercolosi”, ha dichiarato Ricciardi. 59 anni, medico nato a Napoli, Ricciardi è un’eccellenza della ricerca italiana e vanta una lunga carriera internazionale, dalle Nazioni Unite all’Istituto Superiore di Sanità, passando per l’università Cattolica e il Policlinico Gemelli. Oggi rappresenta l’Italia all’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) nel consiglio esecutivo. Un ambasciatore. “L’Italia è un paese visto con rispetto dalla comunità internazionale, eppure assistiamo a un deterioramento della figura del medico che i nostri professionisti non si meritano”, dice Ricciardi. “Sono tra i più competenti, ma anche i meno pagati in Europa in rapporto al potere d’acquisto, i meno protetti nelle loro attività, penso alle guardie mediche, e subiscono disfunzioni organizzative enormi, soprattutto al sud”.

 

Certo, aggiunge, “il medico italiano è l’unico che, una volta prese laurea e specializzazione, non viene più certificato, mentre negli altri paesi ogni 4-5 anni c’è una rivalutazione delle competenze professionali”. Però l’Italia meriterebbe di più. Complice di questa autocommiserazione la caccia alle streghe dei No Vax, che in Italia contano ancora, e non poco. “I vaccini sono vittime del loro successo. Un tempo le madri si rendevano conto degli effetti della poliomielite perché vedevano i bambini morire, oggi è diverso, serve una comunicazione più efficace”. Serve anche pazienza, per smontare i loro cavalli di battaglia. Eccone uno: in Europa i vaccini obbligatori sono molti di meno. “Falso. Ci sono 14 paesi su 28 in Europa che hanno un’obbligatorietà che oscilla da 3 a 12 vaccini. Sono strategie diverse. Certo l’ecosistema aiuta. In Svezia non viene stigmatizzata la mamma che vaccina il figlio, ma quella che non lo vaccina”. Che dire invece del complotto delle multinazionali che lucrano sui vaccini? “Oggi le multinazionali sono le uniche che possono permettersi di produrre vaccini, ma non ci fanno guadagni stellari. Il vero business è quello dei farmaci curativi. Se smettono di produrre i vaccini nel 2050 le malattie infettive saranno la principale causa di morte”. Gli fa eco il sottosegretario al Mise Michele Geraci, che chiude l’evento evidenziando che “è chiaro che parliamo di settori dove la scala produttiva e le spese in ricerca sono ammortizzate più facilmente dalle grandi aziende, ma il know how della ricerca universitaria beneficia anzitutto le piccole aziende”.

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