Fot di Alessandra Tarantino, via LaPresse 

Il discorso

L'immensa difficoltà della pace spiegata da Macron alla Comunità di Sant'Egidio

Le parole del presidente francese mettono in ordine le priorità di un percorso di pace, cioè i termini e i tempi decisi dagli ucraini. Una riflessione contro l’equidistanza nella guerra della Russia 

Pubblichiamo ampi stralci del discorso che il presidente francese, Emmanuel Macron, ha tenuto domenica all’assemblea interreligiosa promossa dalla Comunità di Sant’Egidio dal titolo: “Il grido della pace – Religioni e cultura in dialogo”.  

 

Prima di tutto, vorrei dire che è un grande onore essere con voi oggi, ma allo stesso tempo, quando sono stato invitato e ho accettato l’invito, mi sono detto: stanno invitando il presidente di una Repubblica laica che ha una storia a volte complessa con le religioni. Allora mi sono detto: stanno invitando un presidente che è il capo della diplomazia ma anche dell’esercito di una potenza nucleare, nel mezzo di una guerra tornata in Europa. È un momento strano per venire a parlare di pace. Allora mi sono chiesto: caro Andrea (Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, ndr), sei davvero un amico?

 

Riprendendo Molière: che cosa sono venuto a fare in questo pasticcio? A parlare cioè di pace ora, quando ogni giorno dobbiamo spiegare che dobbiamo resistere, che dobbiamo parlare di sconfitta del nemico, di vittoria, e che ovunque in Europa e nel mondo si attendono parole che il più delle volte sono bellicose. (...) Quando ieri ho chiamato Andrea, gli ho chiesto: cosa vi aspettate da me? Mi ha risposto in un modo che mi ha confortato. Ha detto: ci dica cosa si aspetta dalle religioni in questo momento. È ciò che cercherò di fare.
(...) Non permettiamo che la pace venga oggi catturata dalla potenza russa. Non è una parola per loro. Stanno facendo il contrario. E la pace oggi non può essere la consacrazione della legge del più forte, né il cessate-il-fuoco che cristallizzerebbe uno stato di fatto.

 

Stiamo quindi parlando di pace, di questo “grido di pace” che avete messo come titolo di questo incontro e su cui lavorerete insieme in questi giorni, nel momento in cui donne e uomini ucraini stanno combattendo per resistere, per difendere la propria dignità, per proteggere i propri confini, i propri territori e la propria sovranità. Ma una pace è possibile, quella che decideranno loro, quando decideranno, e che rispetterà i loro diritti di popolo sovrano. Quindi sì, proviamo a riflettere, a capire perché questa guerra in Ucraina ci scuote così nel profondo. Prima di tutto, perché come ha detto poco fa il presidente Mattarella, segna il ritorno della guerra sul suolo europeo e invece fino a ora la nostra Europa era riuscita nel miracolo di tenere la guerra lontana dal proprio suolo.

 

In secondo luogo, perché coinvolge una potenza dotata di armi nucleari. 
Non c’è alcuna giustificazione per questa guerra. Non c’è alcuna spiegazione. 
Ma provando ad astrarmi da questo momento e provando a capire, io che ho passato questi ultimi anni avendo conversazioni continue con il presidente russo Vladimir Putin, ho cercato le ragioni che ci hanno portati a questo punto, perché quando si è uno dei leader di questo mondo e si è cercato di reinserire la Russia nel concerto delle nazioni, per evitare, anche solo pochi mesi fa, questa guerra, non si può non chiedersi ogni giorno: come ci siamo arrivati, alla guerra? Non ho una risposta. Non so se ce n’è una sola, anzi penso che non ce ne sia soltanto una e che nessuna risposta giustifichi, spieghi o legittimi ogni cosa.

 

Credo, innanzitutto, che questa guerra sia il risultato di un nazionalismo esacerbato alimentato dal potere russo che si è nutrito del risentimento e dell’umiliazione nati in seguito alla disgregazione dell’impero sovietico. Poi questo potere si è nutrito e si è rafforzato isolandosi progressivamente dal resto del mondo. La pandemia ha in questo senso contribuito, costruendo la convinzione che c’erano delle minacce e che un qualche tipo di attacco all’esistenza stessa della Russia era il progetto del resto del mondo o meglio dell’occidente, giusto per citarci. Questa convinzione si è consolidata, basandosi su una forma di revisionismo storico, trasformando la storia contemporanea e moderna come una giustificazione di un progetto imperialista e colonizzatore che si fonda sull’invasione del proprio vicino. È quello che è accaduto, credo, in modo metodico negli ultimi mesi e negli ultimi anni. 

 

La guerra in corso oggi è la guerra di una potenza che ha cercato di giustificarla e che ha costruito le proprie ragioni e la propria narrazione, ma non sono affatto certo che questa sia la guerra di tutto il popolo russo. Da qui bisogna partire per rispondere alla vostra questione, caro Andrea, lavorando con pazienza: è una cosa essenziale. Parlare al popolo russo e alle loro coscienze è essenziale. Questa guerra non può essere del tutto la loro guerra oggi. 
Ora abbiamo deciso, e lo faremo fino all’ultimo, di sanzionare la Russia, di essere dalla parte del popolo ucraino per aiutarlo a resistere, da un punto di vista economico, umanitario e militare senza però prendere parte direttamente a questa guerra per non renderla globale. Ma perché a un certo punto il popolo ucraino possa scegliere la pace e perché possa scegliere il momento e i termini di una pace che avrà voluto.

 

Ciò che voglio dire è che esiste una prospettiva per la pace e che a un certo punto la pace esisterà, e in quel momento, in funzione di come si evolveranno le cose e quando il popolo ucraino e i suoi dirigenti l’avranno decisa con i termini che avranno deciso, la pace si costruirà con il nemico di oggi attorno a un tavolo e con anche la comunità internazionale presente. 
Vi dico tutto questo portandovi la mia interpretazione provvisoria e imperfetta di quel che stiamo vivendo perché non siamo estranei a tutto ciò che accade. E quando parliamo di pace, stiamo parlando di una prospettiva che deve essere costruita. Oggi c’è un popolo che è stato aggredito, attaccato, e dall’altra parte ci sono dei leader che hanno deciso di aggredire, di invadere, di umiliare. Restare in disparte pensando che possa esistere una forma di equivalenza o che sia possibile rimanere neutrali, credo, è come accettare che esista un ordine internazionale in cui la legge del più forte può diventare la legge generale e in cui il dominio o lo stato di fatto possano sostituirsi al nostro diritto. Non penso che sia così.

 

Parlare di pace significa anche parlare di ciò che stanno affrontando le nostre società, che non sono necessariamente in guerra, ma vivono il ritorno della violenza e il momento che attraversiamo oscillando tra la ricomparsa delle rabbie e delle grandi paure, dubitando delle verità che permettono di costruire un progetto comune. Un momento in cui tanti, nelle nostre società, sono immersi in una forma di solitudine che, ne sono convinto, è uno dei grandi drammi dei tempi che stiamo vivendo, un momento in cui in molti dei nostri paesi, e in particolare in Europa, i nostri popoli hanno l’impressione di perdere il controllo delle loro vite, della loro storia, dei loro punti di riferimento.

 

Dico questo perché questo turbamento, in un certo senso, che viviamo e che attraversa tutte le nostre società, anche quando non sono in guerra, questa inquietudine che rinasce dalla solitudine, da una forma di relativismo che si generalizza, dall’immensità delle sfide che si profilano davanti a noi, quella del cambiamento climatico, quella delle grandi diseguaglianze legate alla nostra organizzazione contemporanea, in fondo, fanno nascere e tornare, anche nella nostra Europa, i fermenti della guerra. Questi fermenti hanno ogni volta le stesse radici: i nazionalismi ottusi che non dobbiamo mai confondere con il patriottismo, ma che sono la volontà di ripiegamento, di esclusione dell’altro e di dominazione di un popolo, di una nazione sull’altra, di rifiuto dell’altro nelle nostre società, ciò che definirei i sogni di purezza che percorrono le nostre società e che riuniscono tutte le semplificazioni del mondo.

 

Può essere il sogno di una purezza etnica, così come il sogno di una purezza religiosa. Ma sono lì, nelle nostre società, per vendere una forma di assoluto di buona qualità, che consiste nel dire che la soluzione, dinanzi ai dubbi, ai turbamenti, allo sconvolgimento delle coscienze, è quella di tornare a una verità unica e a dei nemici chiari che bisogna combattere. Lo potete constatare: arrivo davanti a voi inquieto. Dunque, dinanzi a queste sfide, quello della guerra in Europa, quello delle guerre che già esistono e dei fermenti che tornano a essere presenti nelle nostre società, cosa possono fare le religioni? Penso che possano fare molto e che i politici che siamo, lo dico nel senso generico del termine, come donne e uomini che hanno deciso di occuparsi della vita della comunità, ne abbiano bisogno.

 

Primariamente perché tutti noi – responsabili di governi o di stati, responsabili associativi e responsabili religiosi – dobbiamo fare la diagnosi corretta e agire assieme. In seguito, perché se è vero che la politica può fare molto per dare un senso alle cose, è vero anche che oggi, in molte delle nostre società, è oggetto di diffidenza, che è la sorella della constatazione che ho appena fatto, perché né le leggi, né i decreti, né le decisioni che possiamo approvare sono sufficienti. Le anime e i popoli non sono amministrabili. Penso dunque che i responsabili religiosi abbiano un ruolo essenziale perché contribuiscono alla trama delle nostre società, alle relazioni tra gli individui e a un rapporto al tempo lungo. Penso che, nel contesto che ho appena evocato e dinanzi alla situazione che ho descritto, il vostro ruolo sia eminente.

 

Anzitutto, come avevo detto a più riprese al Collège des Bernardins (discorso pronunciato nel 2018 sulle relazioni tra la République francese e la Chiesa cattolica, ndr), il dono della saggezza, l’impegno e la libertà che ci si attende dalle religioni. In seguito, sono convinto che le religioni e i responsabili religiosi abbiano un ruolo di resistenza dinanzi alla follia dei tempi. E resistenza significa precisamente non giustificare mai, essere presi in ostaggio o sostenere dei progetti politici che asservirebbero o negherebbero la dignità di ogni individuo. Ritengo che, a tale proposito, questo dovere di resistenza sia essenziale. È essenziale perché il rischio è presente e ciò che descrivo sta accadendo. Tutti sappiamo come la religione ortodossa sia oggi manipolata dal potere russo per giustificare le sue azioni. Sappiamo in che modo l’islam, nelle nostre società e anche in alcune nazioni, venga invocato per giustificare dei progetti politici di dominazione.

 

Sappiamo anche fino a che punto le altre religioni, nelle nostre società, siano state utilizzate nel corso della nostra storia per dei progetti politici di dominazione, di messa in minoranza di una parte dell’umanità e di dominazione dell’altro. Parlo da una Repubblica in cui lo stato è separato dalla religione, ma la religione è nella società e ha un ruolo eminente. Ha il ruolo di non lasciare mai che dei progetti possano, in suo nome, distoglierla dalla sua finalità primaria, o, manipolando i suoi precetti, condurla nella direzione opposta a ciò che difende. Questo dovere di resistenza delle religioni che è ai miei occhi, lo avrete capito, essenziale, consiste nel difendere la dignità di ognuno, nel non cedere mai, in un certo senso, alla pulsione di purezza che alcuni vorrebbero invocare, nel difendere il rispetto, il dovere di prendersi cura dei più fragili e di apportare anche una risposta essenziale che non siamo in grande apportare nelle nostre società: quella delle radici e della salvezza (…).

 

Infine, penso che le religioni abbiano certamente un messaggio di universalismo da trasmettere. Lo dico da un paese, da una nazione, da un popolo che ha questo in comune con le vostre religioni, che ha sempre rivendicato di avere una parte di universale ed è un motivo di fierezza per la Francia. È francese, a miei occhi, colui che pensa di avere un messaggio universale: è nei nostri geni. Ma cos’è questo universalismo? Anzitutto, non è un discorso, una religione o una verità che dovrebbe dominare il resto del mondo. L’universalismo non è un’egemonia. Ma non è nemmeno l’idea di dialogare con se stessi. L’universalismo è anzitutto un’esigenza verso se stessi. È la volontà di comprendere ciò che facciamo su scala mondiale, di dialogare con gli altri e cercare l’irriducibile parte di universale che è in ognuno di noi. L’universalismo è a mio avviso il miglior antidoto contro il relativismo contemporaneo, il miglior antidoto contro la frammentazione del mondo alla quale stiamo assistendo (…).

 

Questo universalismo, colui a cui avete contribuito storicamente, filosoficamente e per il quale abbiamo bisogno di voi più che mai, è quello che permette di prevenire l’umiliazione e, conseguentemente, il risentimento. Perché tutte le guerre che vediamo spuntare oggi e le divisioni nelle nostre società nascono proprio da questo. L’umiliazione del più debole, del dimenticato, di colui che non ha digerito la sua storia perché non abbiamo costruito il cammino per farlo, e il risentimento che ne deriva e che giustifica la guerra di domani. È questo il nostro compito se vogliamo veramente essere all’altezza di questo grido di pace. Non basta mettere giù le armi oggi, dobbiamo anche rintracciare in ogni luogo le umiliazioni e le fonti di risentimento. Nascono ogni volta che questo universalismo è dimenticato. Nascono ogni volta che viene stravolto l’ordine giusto che solo questi princìpi universali permettono di costruire.

 

Preparando questa riflessione libera davanti a voi, mi immergerei nuovamente in un piccolo testo del 1795. È il piccolo testo, in una delle sue edizioni originali, che offrirò domani al papa: il progetto di pace perpetua di Kant. Che nei primi princìpi esposti dice: non può essere riconosciuto come trattato di pace quel trattato che porta con sé le radici di una nuova guerra. Poi lo sviluppa molto meglio di quanto farò io in questa sede: qualsiasi testo, qualsiasi pace che neghi lo spazio dell’altro, anche del mio nemico, non è un trattato di pace. È questa l’immensa difficoltà della pace. Impone questo universalismo che ho appena descritto, un passo verso l’altro e dunque un disequilibrio (…). La pace è impura, profondamente, ontologicamente, perché accetta una serie di instabilità, di scomodità, che rendono però possibile questa coesistenza tra me e l’altro.

 

Lo dico qui per i nostri amici che vengono da tutto il mondo, l’Europa e in particolare l’Unione europea sono un tesoro da questo punto di vista e noi lo possiamo dire perché abbiamo costruito la nostra Europa su millenni di guerre civili. L’Europa era il continente che aveva la più grande expertise in materia di guerre. Guerre di religione, guerre politiche, guerre egemoniche. E la nostra Unione europea è questo piccolo tesoro di pace perché abbiamo deciso di costruire un equilibrio basato sulla conoscenza e la comprensione dell’altro, sull’assenza di egemonia. Non c’è nulla di più forte nella nostra Unione europea (…). Ci vuole molto coraggio per volere la pace, per preservarla e per restaurarla.

 

Anzitutto, il coraggio dell’immaginazione, come ha detto egregiamente Andrea. Perché immaginare la pace in tempi di guerra, è la cosa più grande delle cose impensabili (…). Costruire la pace è accettare sempre la parte dell’altro. Non so dunque se abbiamo bisogno di un grido. Di sicuro abbiamo bisogno di un impegno quotidiano, ma indispensabile. E per questo necessitiamo di molto coraggio e so che ne siamo capaci. Il coraggio di costruire la pace e, in un certo di senso, di vivere costantemente alla sua frontiera. Vi ringrazio.

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