Veduta del Tevere presso Castel Sant’Angelo, Andrea Locatelli 

Il sorriso della capitale, Henry James e la città fetida e suprema

Andrea Venanzoni

Scrittore di dualismi irrisolti e di conflitti, non poteva che rimanere, al tempo stesso, affascinato e inorridito dalla consistenza spugnosa della Città eterna

Scrittore di dualismi irrisolti e di conflitti, ora latenti, ora espliciti, Henry James non poteva che rimanere, al tempo stesso, affascinato e inorridito dalla consistenza spugnosa di Roma; tramonti inondati di argento e di porpora, a picco su erbette incolte e mandrie a pascolo tra le rovine romane, e soglie schiuse dai lucori variopinti e mille lezzi cangianti, zuppe fetide e aromi principeschi a colpire le narici. Molti prima di lui si erano confrontati con la natura bifronte della Città eterna, ma solo James, nella sua posa barocca e nella sua difficoltà a mettere radici, a concepire lo scorrere del reale come un tutto unitario, poteva soffermarsi sperimentando requie nel suo inquieto animo di perenne esiliato.
Sospeso tra la vigorosa rozzezza, innovativa e selvaggia, del turbinare americano e la serafica, ieratica, declinante fisionomia d’Europa, l’autore, americano sì ma naturalizzato britannico, rappresentava uno yin/yang di emozioni e di sentimenti; una irrequietezza che nella Roma melmosa e maestosa vide schiudersi i petali carnicini di un dualismo finalmente realizzato, contingente, intessuto di palazzi e folle vocianti.

 
E’ proprio il peso della realtà, un intermezzo quasi teatrale nel logorio permanente della insoddisfazione e della solitudine, a convincere James, nelle sue molte visite romane, di essere vivo. Scrive al fratello, colmo di gioia, annunciandogli di sentir scorrere dentro di sé, finalmente, forse per la prima volta davvero, il fuoco della tranquillità. Proprio quel realismo concilierà non solo impressioni, suggestioni, emozioni ma anche disincanto stilistico e letterario: calato nel fondo del reale, James si depurerà di qualunque forma di affettato romanticismo, malattia senile del viaggiatore superficiale e soprattutto di certi americani che a contatto con il Vecchio mondo avrebbero più volte sperimentato un deliquio quasi onirico e trasognato.

 
James al contrario vede, scruta, scrutina, assorbe, annota tutto. Il bello e l’orrido, il fetido e il supremamente bello. Ogni cosa diventa estetica, ma una estetica di carne e di sospiri, di ombre languide e di solitudine, di smarrimento e di un ritrovarsi, attorno al centro della vita.


Di queste sue impressioni lascia ampia traccia letteraria in “Una vacanza romana” (Elliot). A Roma, James cementa poi la profonda amicizia, probabilmente una relazione, con lo scultore di origini norvegesi Hendrik Christian Andersen. Un legame intenso, profondamente estetico anche questo; vissuto di meraviglie che si schiudono al tramonto, nell’aria frizzante di infiniti cieli gravidi di rosso e d’oro. I due non si frequentano a lungo. Gli incontri non raggiungono la decina.  Ma la connessione emotiva, psichica, romantica è fortissima, vibrante. Si scrivono, per anni. Il carteggio presenta lampi eburnei di sensazioni, delicati momenti di tristezza e di passione, come quando James reca conforto, per lettera, all’amico e amato, per la perdita del fratello. O come quando sovvengono memorie, alla mente. Gli attimi trascorsi assieme, con sullo sfondo lo scenario di una Roma mistica e bellissima. “Una cena apparecchiata alla sera, nell’oscurità calda e immobile che non faceva tremolare nessuna candela… sospeso con te, siedo con te nella indicibile dorata aria romana” scrive James, rivolto all’amato.


Sussurri echeggiati dal senso di una eternità d’amore e di storia, di una complicità intima, segreta. E come l’amato scultore norvegese, anche la città eterna si renderà fiamma di creazione e scintilla di senso per James. Roma penetrerà lentamente, inesorabilmente nella sua sensibilità letteraria. “Ritratto di signora” e “Le ali della colomba” risentiranno in maniera evidente delle suggestioni raccolte nel viaggio italiano e a Roma in particolare. Come ricorda Flavia Costadoni, l’impatto di Roma su James sarà trasformativo; la psicologia dei personaggi dello scrittore emergerà mutata dal lavacro capitolino, dai sinuosi labirinti di viuzze, dai dedali di piazze, crocicchi, dalla sua umanità ombrosa, tutto quasi a simboleggiare in maniera potente, e dolente, la tortuosa consistenza della psiche umana.