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Roma Capoccia

Una città che non finisce mai: Giacomo Leopardi a Roma

Andrea Venanzoni

Rileggere le lettere del poeta (raccolte da Utet) per scoprire come la capitale non sia mai tanto piaciuta agli italiani

Delle gran cose che io vedo, non provo il menomo piacere, perché conosco che sono meravigliose, ma non lo sento, e t’accerto che la moltitudine e la grandezza loro m’è venuta a noia dopo il primo giorno”. Novembre 1822. Giacomo Leopardi è appena giunto a Roma, e la città gli appare confusionaria, caotica, sciatta, spettrale, densa di una malinconia abissale che lo mette profondamente a disagio. Da qui muovono le premesse per un intimo e sofferto carteggio con i familiari, i cui toni saranno sovente puntuti, aspri, persino disperati. Il poeta si è allontanato da Recanati, per reclamare la propria centralità e la propria autodeterminazione ma a Roma piomba a capofitto in una fornace nera di disperazione e di solitudine.


Accolto in casa da parenti con cui entra in rotta di collisione, si sente asfissiare. Piccolo, invisibile quasi, perso in una città oscena e che sembra non finire mai. Gli uomini romani gli appaiono eccessivamente sbruffoni, ciarlieri, gli fanno misericordia, mentre le donnone popolane che vede in giro gli ripugnano. Dopo soli due mesi di soggiorno, sempre più soggiogato dal clima infausto, dalla ipocrisia della società romana, dai guizzi volgari che vede baluginare nel folto di antiche statue e dimenticati splendori, in una ulteriore lettera al fratello Carlo si lascia andare a un severo sfogo contro le donne che popolano la città. Il confronto con la mite vivibilità di Recanati è per Leopardi un autentico trauma, ma a colpirlo, in particolare, è la assoluta mancanza di qualunque accento di gravitas, di solennità, di grandiosità. Scrive al padre, “le dirò che ho trovato in Roma assai maggiore sciocchezza, insulsaggine e nullità, e minore malvagità di quella ch’io mi aspettassi”.

La Città eterna è deludente persino se riguardata nella angolazione prospettica del potere e del male. Per non parlare del clima culturale e della grigia, arida scena letteraria, che Leopardi arriva ad aborrire con tutto se stesso. La ferocia dell’isolamento, la solitudine, lo smarrimento, il disgusto per ciò che vede, sente e prova, lo porteranno a produrre uno dei più intimi carteggi immaginabili. Lettere molto sofferte e personali, spesso corrosive, in cui non mancano insulti rivolti a questo o quel personaggio o ai romani in genere. Le lettere sono state raccolte e pubblicate da Utet nel 2014, nel volume “Questa città che non finisce mai”, impreziosito da un articolato saggio di Emanuele Trevi. Comprensibilmente, l’emersione alla luce delle lettere suscitò un autentico caso, tanto è squillante il risentimento che Leopardi lascia trasparire per la città. L’impatto negativo del soggiorno romano sarà talmente traumatico e duraturo che Leopardi ne lascerà ampia traccia anche nello Zibaldone, nel quale il poeta recanatese accusa il tempo trascorso a Roma di averlo impigrito e emotivamente nullificato. Il soggiorno, scrive Leopardi, “mi rese stupido, inetto, morto internamente. Divenni affatto privo e incapace di azione e di vita interna, senza perciò divenir più atto all’esterna”.

Leopardi sarebbe tornato a Roma anni dopo, nel 1831, in compagnia del fido amico Ranieri. Persona diversa, rispetto quella del primo soggiorno. Ormai poeta conosciuto, più consapevole del mondo e dei propri mezzi. Eppure il tono generale, paludoso, malinconico, della visita romana non cambia. Nonostante questa volta decida di non stabilirsi presso i parenti romani, che erano stati anche loro causa del sentimento nefasto provato da Leopardi, e prenda in affitto una abitazione privata non distante da via Condotti, il poeta continua ad avvertire sfiducia e a sentirsi interiormente morto. Difficile scrivere, comporre, creare. E proprio questa coltre nebbiosa di pessimismo, gli concilierà una lettera nel dicembre 1831, indirizzata a Fanny Targioni Tozzetti, che rappresenta disperante epitome e ctonia professione di nichilismo e di pessimismo ontologico. Nella lettera, come sottolinea Trevi nel suo saggio, Leopardi cesella una visione della natura che condanna l’essere umano a perenne infelicità. Uno sguardo torvo, accigliato, nero che si posa sulla fisionomia assopita e vacua di una esistenza al cui interno, come tra le mura di Roma, nulla sembra destinato alla gioia.

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