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Roma Capoccia

Lagioia minaccia di dedicarsi (di nuovo) all'Esquilino, roba sua

Andrea Venanzoni

Lo scrittore e direttore del Salone internazionale  del libro di Torino torna a immergersi nella consunta e pastosa desolazione nel canceroso lembo romano di architettura sabauda

L’Esquilino, canceroso lembo di architettura sabauda sottolineato da cieli gravidi di smog e dai cadaveri lessi e spatasciati per strada, onora spesso le cronache. Epitome di un caos entropico dipanato tra cataste di rifiuti e di turisti, nella toponomastica di una unificazione d’Italia irrisolta, e quella Stazione Termini, monolite annerito di urina e di sogni infranti, di tondelliane derive lungo direttrici di nullificazione. Via Giolitti. Via Gioberti. Via Turati. Via Mamiani. Via Napoleone III. Fetido miasma viario in onore di chi ha fatto l’Italia intrecciato come vimini di vomito e di sangue con chi, semplicemente, si è fatto. 

Ancora incrostato il sangue lungo le mura, la siringa in vena, in un gorgo spazio-temporale che riporta indietro agli anni dell’eroina di massa, e su quelle mura svettano manifesti e proclami spray e figure macilente da nebbie pornografiche alla Pierre Guyotat. Un mattatoio di etnie rissose pure tra loro e aree interdette alla vita, un nichilismo urbano che odora di fretta e di fuga. Accoltellamenti. Furti. Senzatetto che si trascinano dietro, spesso sul selciato, spesso tra vetri rotti, lerci, soli, le poche cose conquistate nella guerra di tutti contro tutti, e sullo sfondo accampamenti ricombinanti di stracci, e gabbiani che sventrano topi facendone poltiglia per l’orrore conradiano dei passanti. Biglietto da visita della Capitale-zombie. Camminamenti e ballatoi e negozietti, capannelli di disperazione, mercatini abusivi, parchetti occultati alla vista e crack-house, e adescamenti lungo ogni crocicchio e gang appostate per via, traffici oscuri consumati velocemente. Vivere e morire all’Esquilino. Non interessa nessuno. E ogni mutamento, ogni locale sotterrato in giochi perversi e mani che stringono altre mani depositandoci dentro paradisi artificiali, punteggiano stradine dentro cui regna una puzza così gonfia, così paludosa, da rendere impossibile il transito. Sembra quasi impossibile, ma a dire il vero non poi così impossibile, tutta questa stordente sequenza da carnaio, alla Hubert Selby jr. o alla Peter Sotos, sfugge completamente, nella sua irriproducibilità, nella sua incomprensibilità, alla scarsa sensibilità delle attuali, contemporanee menti di lettere, rimaste quando va proprio bene a Pasolini. “Pasoliniano”, aggettivo che dovrebbe essere bandito per la gioia dell’eternità.

E no, la loro non è tragica incapacità ma proprio a-sintonica impossibilità di visione e di comprensione, perché lo scrittore contemporaneo è un burocrate che rimira l’oscenità del mondo come un funzionario dell’Agenzia delle Entrate compilerebbe una cartella esattoriale. Il quale ultimo, almeno, nel dolore inflitto al debitore è superiore a gran parte della scrittura contemporanea, e almeno ci risparmia le citazioni da Elsa Morante. Nicola Lagioia aveva già tentato qualche anno fa con “Esquilino: il Cristo morto tra i rifiuti”, una gemma di insipida banalità. Ma ora reduce dalla fine dell’esperienza salonesca torinese, dove incredibilmente sono riusciti ad aver tutti, tutti, torto, avrà ci si immagina il tempo per immergersi di nuovo nella consunta e pastosa desolazione dell’Esquilino. Ed in effetti più Dominique Lapierre che non il Gottfried Benn di “Morgue”, “e tutto in sangue estraneo vuol levarsi/e in un diverso fiammeggiar di vita/annegare il suo anelito/e restare in se stesso nulla vuole”, Lagioia è lo scrittore perfetto di questi tempi, lo scrittore che si immerge, riuscendo a rimanere intaccato, nella marginalità. Esquilino, proprio città della Lagioia. E quanto piace la marginalità, borborigma sulle bocche e nelle penne che scrutano la catastrofe facendo aperitivo, da dietro serrati vetri di bistrot con vista su barbone e “ruolo dell’intellettuale”. Ma qui, per queste oscene vie, c’è la smaltata mostruosità dell’inchiostro alla Duvert o alla Matzneff, situata fuori dal radar dei Lagioia. William Burroughs definiva con nitido fulgore la differenza tra il torero che nell’arena rischia sul serio la pelle e lo smerda-tori che nel chiuso confortevole della stanzetta d’albergo gioca a imitare le mosse del torero, senza correre pericolo alcuno. Nemmeno per sbaglio.

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