(Lapresse)

Roma Capoccia

Ama e il funerale negato, considerazioni psicogiuridiche

Ernesto Stajano; Luca Pani

Chissà se Virgina Raggi ha letto l'Antigone di Sofocle. L'impossibilità di seppellire un familiare è una ferita che non consente di elaborare il lutto

Non possiamo presumere che avere un rituale commemorativo formale, un funerale e una sepoltura, di per sé, precludano l’esistenza o la risoluzione di dolori irrisolti, moltissimi dei quali pre-datano la morte anche di anni. Tutti, per averci partecipato, riconoscono i benefici di una commemorazione, del funerale e dell’immediata sepoltura, elementi essenziali ma non automatici dell’esperienza emotiva per i familiari e gli amici sopravvissuti a coloro che muoiono. Il rituale conclusivo della tumulazione nel luogo finale in cui i nostri cari possano riposare in pace, è – tra tutti – il meno simbolico perché restituisce materia, ovvero fisicità al luogo dove il riposo diventa eterno e dove l’addio da parte dei vivi può ripetersi sino a quando i vivi possono e lo desiderano.

 

Per questo si dice che si muore due volte: la prima quando si smette di respirare e la seconda volta, per sempre, quando l’ultima persona pronuncia il tuo nome. Gli antropologi hanno scoperto da tempo che gli esseri umani tentano di schermarsi dalla morte controllandola attraverso precisi rituali di sepoltura che per essere efficaci vanno rispettati e soprattutto completati. Tre fasi distinte: separazione, transizione e incorporazione consentono la delicata transizione relazionale tra chi resta e chi va via. In tempi di Covid, come abbiamo visto, la separazione ci è stata negata e ora, in assenza di un tumulo, su cui appoggiare una mano o piegare le ginocchia neppure la transizione e l’incorporazione potranno mai avvenire. Almeno non nella città che prima di ogni altra aveva normato il dolore del trapasso e codificato, in un opera dalle implicazioni psicologiche straordinarie, la dignità della suprema sofferenza.

Venticinque secoli fa, proprio in Roma, la legge delle dodici tavole fissava una ferma regola di rispetto, onore e pietà. Ugo Foscolo la ricordò nell’intitolazione del carme immortale dedicato ai sepolcri. Oggi, ancora in Roma, purtroppo in Roma, l’antica regola patisce un intollerabile oltraggio. Migliaia di defunti giacciono insepolti, affidati alla sensibile amministrazione dell’Ama, la società capitolina che si occupa della gestione dei rifiuti. Non pretendiamo che la Sindaca di Roma conosca i classici. Di questi tempi sarebbe pretendere troppo e, d’altronde, nella stagione della cancel culture non conoscerli potrebbe essere addirittura un vanto. Più grave, anzi intollerabile, è non conoscere le regole necessarie ad assicurare il pubblico interesse e non averne cura.

 

In verità la scelta, all’evidenza disgustosa, di delegare la cura dei defunti a chi si occupa di immondizia non si può imputare alla sindaca Raggi essendo stata effettuata nel 1997. E’ uno dei tanti amari frutti delle riforme innovative che avrebbero dovuto snellire e semplificare la pubblica amministrazione rendendola più efficiente. Si riteneva che affidare ad una società per azioni la gestione di servizi pubblici avrebbe consentito, per la sola virtù del modello privatistico, di ottenere economicità ed efficienza. La storia di queste società pubbliche dimostra il contrario. Affidamenti diretti senza gara (in house), totale sottoposizione al potere politico (controllo analogo), sottrazione alle regole della pubblica amministrazione, mancanza o mortificazione dei controlli hanno dato luogo ad ogni sorta di sprechi ed inefficienze.  

Il caso dell’Ama non merita commenti; tutti possono giudicare i risultati nel tempo raggiunti e la totale assenza di un valido controllo da parte dei soggetti deputati ad attuarlo. Chi vuole soffrire di più potrà esaminare il contratto di servizio dell’ottobre 2018 che affida all’Ama Spa le attività cimiteriali.  Misurerà così la distanza siderale fra le parole ed i fatti. I defunti dovranno ancora attendere, purtroppo non possono più sperare.
 

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