Il discorso integrale

Perchè l'europa deve investire sull'AI. La Lezione di Mario Draghi

All'inaugurazione dell'anno accademico del politecnico di Milano l'ex premier spiega come solo la tecnologia consente la prosperità. Per la Ue investire sull'intelligenza artificiale può significare imporre la più significativa accellerazione alla sua crescita economica da decenni. L'AI, inoltre, può ridurre le diseguaglianze nella sanità e nell'istruzione

Pubblichiamo per intero il discorso di Mario Draghi in occasione dell'inaugurazione dell'anno accademico del Politecnico di Milano il 1 dicembre del 2025.

 


 

Per oltre due secoli, il miglioramento del tenore di vita è stato alimentato da successive ondate di progresso tecnologico. Alla fine del XVIII secolo, le macchine a vapore  spinsero la rivoluzione industriale britannica. Nel XIX secolo, l’elettrificazione trasformò profondamente l’industria e la vita domestica. All’inizio del XX secolo, il processo Haber–Bosch estrasse fertilizzanti dall’aria, sostenendo un boom demografico; più tardi, il container rivoluzionò il commercio globale comprimendo drasticamente i costi di trasporto. Oggi la tecnologia rimane il principale motore della prosperità - ma con due sfumature cruciali. Primo: le economie avanzate non possono più fare affidamento soltanto sul lavoro o sul capitale per sostenere la crescita come un tempo - rendendo la tecnologia, semmai, ancora più centrale per la prosperità futura. Le nostre popolazioni stanno invecchiando e gran parte delle infrastrutture fisiche risale a decenni fa. Come mostrò Robert Solow a metà degli anni Cinquanta, una volta raggiunto questo stadio di sviluppo, la crescita di lungo periodo dipende in misura schiacciante dalla produttività - che, in pratica, significa nuove tecnologie e diffusione di nuove idee. Esiste un’illusione seducente secondo cui la crescita  sarebbe meno essenziale, una volta raggiunto un alto livello di sviluppo;  il calo della popolazione potrebbe  consentire un aumento del benessere anche se l’economia ristagna. Ma questo non è vero in generale e in particolare per i paesi che si trascinano un alto livello di debito. 

 

Ciò che conta per la sostenibilità del debito è la dimensione complessiva dell’economia. Se l’economia smette di crescere mentre gli interessi continuano a maturare, il rapporto debito/Pil inizierà ad aumentare fino a diventare insostenibile. a quel punto, i governi sono costretti a scelte dolorose tra le loro ambizioni fondamentali: tra pensioni e difesa; tra preservare il modello sociale e finanziare la transizione verde. Inoltre la crescita è essenziale per affrontare le  nuove esigenze sociali, politiche, economiche, di sicurezza che si presentano continuamente a uno stato. Secondo: il ritmo stesso del cambiamento tecnologico sta accelerando. Resta aperta la domanda se le innovazioni di oggi eguaglieranno il potere trasformativo di quelle del passato. Ma ciò che determina la rapidità del loro impatto economico è la velocità con cui si diffondono nella società e su questa dimensione il mondo è entrato in un territorio inesplorato.

 

La rivoluzione industriale si dispiegò nell’arco di otto decenni; l’elettrificazione impiegò circa trent’anni per diffondersi nelle economie del mondo. Per contro, ChatGPT è stato lanciato nel novembre 2022 e nel giro di pochi anni gli investimenti globali nelle infrastrutture di IA  è previsto raggiungano diverse migliaia di miliardi di dollari. L’IA può essere “solo” uno strumento, ma ciò che la rende eccezionale è la sua capacità di diffondersi nell’economia in tempi molto più rapidi rispetto alle precedenti rivoluzioni tecnologiche.  Quindi  la divergenza tra i Paesi che abbracciano l’innovazione e quelli che esitano si allargherà sensibilmente e rapidamente negli anni a venire. È per questo che l’Europa vive oggi un momento di verità. Negli ultimi vent’anni siamo passati dall’essere un continente che accoglieva le nuove tecnologie, riducendo il divario con gli Stati Uniti, a uno che ha progressivamente eretto barriere all’innovazione e alla sua adozione. Lo abbiamo già visto nella prima fase della rivoluzione digitale, quando la crescita della produttività europea è scesa a circa la metà del ritmo statunitense, e quasi tutta la divergenza è emersa dal settore tecnologico.

 

Ora questo schema si ripete con la rivoluzione dell’IA. Lo scorso anno, gli Stati Uniti hanno prodotto 40 grandi modelli fondamentali, la Cina 15 e l’Unione europea soltanto tre. E lo stesso schema si osserva in molte altre tecnologie di frontiera - dalla biotecnologia ai materiali avanzati fino alla fusione nucleare - dove numerose innovazioni significative e investimenti privati avvengono al di fuori dell’Europa. Se non colmiamo questo divario e non adotteremo queste tecnologie su larga scala, l’Europa rischia un futuro di stagnazione, con tutte le sue conseguenze. Considerato il nostro profilo demografico, se l’Ue mantenesse semplicemente il tasso medio di crescita della produttività dell’ultimo decennio, tra 25 anni l’economia avrebbe, di fatto, la stessa dimensione di oggi. Per decidere come reagire, dobbiamo innanzitutto avere una visione chiara di ciò che questa nuova ondata tecnologica - soprattutto l’IA - offre davvero. Trovarsi sull’orlo di una nuova rivoluzione tecnologica comporta inevitabilmente grande incertezza. Una valutazione lucida dell’IA deve riconoscere sia i rischi legittimi, sia i potenziali benefici significativi. Stime credibili suggeriscono che l’IA potrebbe innalzare in modo sostanziale il percorso di crescita delle economie avanzate. Se la diffusione dell’IA ricalcasse il boom digitale statunitense della fine degli anni Novanta, la crescita della produttività potrebbe essere più alta di circa 0,8 punti percentuali all’anno. Se seguisse la diffusione dell’elettrificazione negli anni Venti, il miglioramento potrebbe avvicinarsi a 1,3 punti. Anche la parte bassa di queste stime rappresenterebbe l’accelerazione più significativa che l’Europa abbia visto da decenni. 

 

Ma a fronte di questo potenziale esiste un rischio reale di sostituzione del lavoro, aumento delle disuguaglianze e altri danni per la società quali frodi e violazioni della privacy. La storia economica indica che la disoccupazione di massa non è l’esito più probabile. Le precedenti rivoluzioni tecnologiche non hanno generato perdite occupazionali permanenti; nel tempo, sono nate nuove professioni, industrie e fonti di domanda. Ma la transizione raramente è lineare. La discontinuità colpisce in modo diseguale: alcuni lavoratori, mansioni e territori sopportano l’onere della sostituzione, mentre altri beneficiano in misura sproporzionata. E se l’IA rafforzasse dinamiche di mercato “winner-takes-most”, la distribuzione dei guadagni potrebbe diventare ancora più sbilanciata. 

 

Vi sono tuttavia due elementi importanti. Primo: la velocità e l’ampiezza della sostituzione del lavoro non sono determinate solo dalla tecnologia, ma dalle politiche che vengono attuate dai governi: dipenderà dalle scelte che questi faranno se la prosperità creata con l’uso dell’IA verrà condivisa con tutti i lavoratori oppure, come sta avvenendo attualmente,  affluirà solo ad alcuni.  Il rischio di sostituzione è proporzionale alla rapidità con cui le imprese possono adottare nuove tecnologie, un fattore a sua volta influenzato da regolazione, connettività digitale, costo dell’energia e flessibilità del mercato del lavoro. Allo stesso modo, la capacità dei lavoratori di spostarsi verso nuovi ruoli dipende dai sistemi educativi, dai programmi di formazione e dalla capacità delle società di riqualificare rapidamente la forza lavoro. Secondo l’Ocse, la maggior parte dei lavoratori esposti all’IA non avrà bisogno di competenze tecniche specialistiche per trarne beneficio. Le competenze più richieste nelle professioni maggiormente esposte saranno legate alla gestione e all’ambito aziendale, abilità che milioni di persone possono acquisire con un supporto adeguato. Secondo: ciò che è spesso assente nelle discussioni sul tema è la considerazione di quanto queste tecnologie possano aiutare a ridurre alcune delle diseguaglianze che più  incidono sulla vita quotidiana delle persone. Prendiamo la sanità. Le differenze nei tempi di attesa per un intervento o nella rapidità con cui una persona viene visitata al pronto soccorso influenzano direttamente la percezione di equità. E tuttavia la tecnologia sta già contribuendo a ridurre questi divari. Uno studio negli Usa riporta che  strumenti di triage e gestione dei flussi basati su IA hanno ridotto i tempi di attesa in pronto soccorso di oltre il 55% portando al risparmio   di circa 200 ore-uomo al mese, da destinare all’assistenza dei pazienti. E nella diagnostica per immagini, altri  studi   suggeriscono che priorità basate sull’ IA potrebbero ridurre i tempi medi di refertazione dei casi più urgenti da circa 10–11 giorni a circa 3 giorni, consentendo diagnosi molto più rapide e un  servizio esteso a un maggior numero di pazienti. 

 

 La diseguaglianza è presente in maniera importante anche nell’istruzione. Oggi, una parte significativa dei risultati educativi dipende dal caso: dall’incontro con l’insegnante giusto al momento giusto; dal riconoscimento di un talento; dalla guida verso percorsi in cui uno studente può esprimersi al meglio. L’IA ha il potenziale per ridurre questa componente casuale. I sistemi di tutoraggio personalizzato possono adattarsi al ritmo e alle esigenze di ogni studente, offrendo in linea di principio a ogni bambino un accesso a un’istruzione di alta qualità. Uno studio recente mostra che gli studenti che utilizzano tali strumenti migliorano  la propria performance passando dal  35° al 60° percentile. I miglioramenti sono risultati doppi per gli studenti provenienti da contesti svantaggiati. Se sistemi come questi fossero adottati su larga scala nei sistemi pubblici di sanità e istruzione in Europa, genererebbero benefici sociali immediati. Queste e altre tecnologie non saneranno le società da tutti i loro guasti ma possono migliorarne lo stato di salute. Quanto, dipenderà in gran parte dalle scelte politiche che ne guideranno la diffusione. Giudicare e regolare in anticipo l’IA richiede di soppesare una vasta gamma di possibili esiti - economici, sociali, etici - in una situazione in cui la stessa tecnologia si evolve con rapidità.

 

Se c’è un filo conduttore nelle difficoltà dell’Europa a tenere il passo con il cambiamento tecnologico, è la nostra incapacità di gestire questo tipo di incertezza radicale. Per ragioni storiche e culturali, l’Europa ha spesso adottato un approccio improntato innanzi tutto alla cautela, radicato nel principio di precauzione: l’idea che, quando i rischi di una nuova tecnologia sono incerti, l’opzione più sicura sia rallentare o limitarne  l’adozione. Questo metodo può essere appropriato in ambiti chiaramente delimitati, come in alcuni settori della tutela ambientale. Ma è inadeguato per tecnologie digitali ad uso generale come l’IA, dove l’ampiezza - e la variabilità - degli esiti potenziali è enormemente maggiore. In tali contesti, i regolatori devono inevitabilmente formulare giudizi ex ante, assegnando pesi a rischi e benefici prima che i fatti siano pienamente noti. Semplicemente lasciare che nuove tecnologie si diffondano senza controllo, come accaduto con i social media, non è un’alternativa responsabile. Ma bloccare il potenziale positivo prima ancora che possa emergere è altrettanto sbagliato. Una politica efficace in condizioni di incertezza richiede adattabilità: la capacità di rivedere le ipotesi, riequilibrare quei pesi, adeguare rapidamente le regole man mano che emergono evidenze concrete, sui rischi e sui benefici.

 

Ed è qui che l’Europa si è inceppata. Abbiamo trattato valutazioni iniziali e provvisorie come se fossero dottrina consolidata, inserendole in leggi estremamente difficili da modificare una volta che il mondo cambia. Prendiamo il Gdpr, varato nel 2016.  Ha attribuito un peso molto elevato alla privacy rispetto all’innovazione. Ma l’equilibrio individuato nel 2016 continua a vincolarci nel 2025, anche se la frontiera tecnologica è avanzata molto più rapidamente del quadro regolatorio e i costi economici di questo approccio sono sempre più evidenti. Studi mostrano che il Gdpr ha penalizzato soprattutto le piccole imprese tecnologiche europee diminuendone i profitti  di circa il 12%, ha aumentato il costo dei dati di circa il 20% rispetto ai concorrenti statunitensi e ridotto gli investimenti di venture capital nel settore tecnologico europeo di circa un quarto. E’ come se  alla prima scossa elettrica i nostri antenati avessero deciso di limitare  l’elettricità stessa, invece di progettare impianti e standard di sicurezza che consentissero  alla società di sfruttarne il potenziale trasformativo. E tuttavia, nonostante queste condizioni, l’innovazione non è scomparsa dall’Europa. Secondo molti indicatori di produzione scientifica, le istituzioni europee nel loro insieme eguagliano - e in alcuni settori superano - il volume della ricerca statunitense. Nelle richieste di brevetto internazionali, l’Europa  rappresenta circa un quinto delle richieste globali, leggermente più del Nord America, anche se molto dietro l’Asia.

 

Ma  alcune delle regole che ci siamo dati ostacolano la fase successiva all’innovazione  soprattutto per le imprese giovani, che non dispongono delle risorse necessarie per affrontare la complessità giuridica e la frammentazione nei  mercati dei ventisette paesi membri.  Gli europei che vogliono muoversi rapidamente - e che comprendono l’eccezionale velocità dei cicli di innovazione di oggi - vanno dunque all’estero per costruire e crescere. Oggi, quasi due terzi delle start-up europee si espandono negli Stati Uniti già nella fase pre-seed o seed (pre avviamento o avviamento), rispetto a circa un terzo di cinque anni fa. Il primo passo per riportare l’Europa sulla strada dell’innovazione è quindi cambiare questa cultura della precauzione: ridurre l’onere della prova che imponiamo alle nuove tecnologie e attribuire al potenziale dell’IA lo stesso peso che attribuiamo ai suoi rischi. Ma soprattutto occorre agilità nel saper riconoscere quando la regolamentazione è stata resa obsoleta dagli sviluppi della tecnologia e cambiarla rapidamente.

 

La buona notizia è che questo cambiamento è già iniziato. Il rapporto sulla competitività europea pubblicato lo scorso anno ha analizzato in profondità le barriere strutturali che impediscono all’innovazione di radicarsi in Europa, evidenziando le cause della nostra perdita di posizione nei settori tecnologici chiave. Oggi molti leader europei condividono questa diagnosi. Sempre più riconoscono che - ben lontani dal definire uno “standard d’oro” globale nella regolazione della tecnologia - abbiamo spinto l’innovazione altrove e accresciuto la nostra dipendenza da chi guida lo sviluppo. Di conseguenza, la Commissione ha iniziato a rivedere alcune delle normative più controverse, con l’obiettivo di ripristinare un migliore equilibrio. Ad esempio, con il prossimo pacchetto “Digital Omnibus”, propone una definizione più flessibile di dato personale per l’addestramento dei modelli e ha già rinviato alcune delle disposizioni più severe relative ai sistemi di IA ad alto rischio.

 

Ma questo è solo l’inizio. Anche se l’Europa eliminasse tutte le norme che hanno frenato l’innovazione, questo da solo non chiuderebbe il divario. La domanda decisiva è cosa faremo con la libertà che riconquisteremo. La ricerca mostra che i sistemi di innovazione più efficaci  hanno in comune alcune caratteristiche fondamentali. Le istituzioni pubbliche svolgono un ruolo centrale finanziando la ricerca di base in aree in cui gli incentivi privati sono deboli, facendo scelte rischiose e coraggiose puntando su idee che  hanno però un alto potenziale di rendimento. Le università e gli istituti di ricerca a loro volta utilizzano  quei finanziamenti per conseguire  progressi scientifici, portando  dei  concetti nuovi  fino  alla loro applicazione concreta.L’  impresa privata porta poi  queste idee al traguardo finale: ne amplia la dimensione, le commercializzano e le traducono in guadagni di produttività. Si pensa spesso che il motore di questo ciclo sia il settore della difesa, il famoso “modello DARPA”. Ma negli Stati Uniti sono le agenzie scientifiche civili, come i National Institutes of Health e la National Science Foundation, i cui finanziamenti risultano maggiormente correlati ai miglioramenti di produttività nel medio periodo. I brevetti collegati a tali finanziamenti pubblici rappresentano solo il 2% del totale, ma spiegano circa  il 20 percento dell’ incremento  della produttività.

 

L’Europa ha tutto il potenziale per raggiungere risultati analoghi. Il sistema universitario europeo offre una istruzione di alta qualità a un grandissimo  numero di studenti, ma stenta ad affermarsi tra i leaders della ricerca a livello mondiale, dove primeggiano Cina e Stati Uniti. Non credo dovremmo abbandonare il nostro modello, ma effettuare alcuni interventi efficaci.L’Europa non difetta di finanziamenti per la ricerca rispetto ad altre regioni. La spesa pubblica in R&S nell’UE, in percentuale del Pil, è paragonabile a quella degli Stati Uniti. Il problema è che solo circa il 10% di questa spesa avviene a livello europeo, dove potrebbe essere destinata a grandi programmi di  trasformazione dirompente. Un miglior   coordinamento è quindi essenziale per avvicinarsi alla frontiera globale. Per questo il Rapporto sulla competitività europea ha proposto  il raddoppio del bilancio per la ricerca fondamentale attraverso lo European Research Council , raccomandazione che la Commissione Europea ha inserito nella sua propoposta di bilancio. Secondo: in Europa abbiamo politecnici universitari  eccellenti, come  la vostra Università, ma dobbiamo  fare in modo  che dispongano delle risorse necessarie per condurre ricerca di livello mondiale e  per attrarre i migliori talenti.

 

L’Ue destina una quota più elevata dei fondi pubblici per R&S all’istruzione superiore rispetto agli Stati Uniti—56% contro 32%—ma le università statunitensi dispongono comunque di budget di ricerca complessivi molto più ampi, grazie alla combinazione di finanziamenti pubblici e ingenti dotazioni private e filantropiche. In Europa, anche le università più grandi dispongono di budget di ricerca pari a qualche centinaio di milioni di euro, mentre negli Stati Uniti alcune singole istituzioni investono oltre 3 miliardi di dollari l’anno in R&S, e circa 30 università superano la soglia del miliardo. La differenza è strutturale. Negli Stati Uniti, i donatori privati hanno forti incentivi, riconoscimento pubblico tramite cattedre e laboratori dedicati, e cospicue detrazioni fiscali. In Europa, invece, le università spesso mancano della stessa flessibilità nella raccolta dei fondi. In molti paesi, le donazioni non sono pienamente deducibili, e le istituzioni accademiche affrontano vincoli nell’utilizzo dei fondi privati, soprattutto per offrire retribuzioni competitive ai migliori ricercatori. Rendere le Università più autonome nella raccolta  e nell’utilizzazione dei fondi, sostenere il finanziamento privato a favore delle università e dei centri di ricerca pubblici, concentrando le risorse per creare veri centri di eccellenza è essenziale se l’Europa vuole competere a livello mondiale.

 

Il rapporto sulla competitività europea  ha proposto l’istituzione di un programma altamente competitivo per favorire l’emergere di istituzioni di ricerca di livello mondiale—un “ERC per le istituzioni”. Ha inoltre raccomandato la creazione di un nuovo schema di “Cattedre Europee”, finanziate direttamente dal bilancio UE, per offrire ai migliori ricercatori posizioni stabili e attrattive in settori strategici.  Come ha recentemente osservato il Presidente dell’ERC, l’Europa potrebbe diventare un “rifugio” per i ricercatori statunitensi che oggi affrontano restrizioni sui finanziamenti e sulla libertà accademica, ma solo se creeremo le condizioni per attrarli. Terzo: esiste un enorme margine per migliorare la commercializzazione della ricerca di base. Sebbene le università europee generino un ampio volume di brevetti, solo circa un terzo delle invenzioni brevettate viene effettivamente commercializzato. Questo divario deriva da varie debolezze strutturali: regole poco chiare sulla proprietà intellettuale; scarsa integrazione in cluster dove start-up, grandi imprese e venture capital possono rafforzarsi reciprocamente; e barriere che rendono difficile la crescita per le imprese  più giovani. Chiarire la proprietà intellettuale, consentire a fondi pensione e assicurativi di investire nel venture capital e creare un autentico “ventottesimo regime” per le imprese innovative rafforzerebbe in modo significativo l’ecosistema europeo dell’innovazione.

 

Una riforma chiave sarebbe una versione europea del Bayh–Dole Act, approvato negli Stati Uniti nel 1980, che consentì alle università di possedere e concedere in licenza invenzioni derivanti da ricerca finanziata con fondi federali. Nei due decenni successivi, la brevettazione universitaria negli Usa aumentò di circa dieci volte e nacquero migliaia di imprese provenienti dalle università. Alcuni paesi europei come la Germania e la Danimarca si sono dotati di strumenti analoghi, ma disporre di un quadro europeo potrebbe accelerare la commercializzazione della ricerca specie in vista degli interventi di completamento del mercato unico. Queste riforme sarebbero particolarmente efficaci qui in Italia, dove il tessuto imprenditoriale è molto più dinamico di quanto suggeriscano alcuni stereotipi. Tra i Paesi europei che ospitano il maggior numero di imprese con i più alti tassi di crescita annua nell’ultimo decennio, l’Italia è al primo posto con 65 imprese. E Milano è al terzo posto tra tutte le città europee, con 11 imprese ad alta crescita. Nessuna di queste riforme richiede ingenti nuove spese. Richiedono coordinamento,  focalizzazione e fiducia nei nostri scienziati e imprenditori.

 

Mentre iniziate il vostro percorso universitario, è naturale chiedersi quale sarà il vostro ruolo - come scienziati e innovatori di domani - in questa trasformazione. Avete la fortuna, e il talento, di iniziare la vostra carriera al centro di una rivoluzione tecnologica. Questo vi pone in una buona  posizione  per affrontare l’incertezza che inevitabilmente l’accompagna. Ma vi incoraggio a non considerare l’incertezza come qualcosa da evitare. Anche all’interno della tecnologia, alcune categorie professionali - in particolare le posizioni junior nel coding in settori esposti all’IA - stanno cambiando rapidamente. In un mondo così, il percorso più sicuro non sarà quello più prevedibile. Sarà quello che vi rende produttori di idee e che vi dà  la libertà di adattarvi mentre la tecnologia evolve. Questo percorso passa anche attraverso l’imprenditorialità. Vi invito inoltre a riflettere su come possiate contribuire a rendere il vostro Paese - e il vostro continente - un luogo in cui l’innovazione possa prosperare di nuovo. Siete già stati formati da una società che ha investito in voi: da famiglie che vi hanno sostenuto, da insegnanti che vi hanno stimolato e da istituzioni pubbliche che vi hanno dato l’opportunità di apprendere e sviluppare i vostri talenti. È un debito di gratitudine che tutti portiamo con noi. Ripagare questo debito non significa che dobbiate tutti rimanere in Italia, o in Europa. La tecnologia è globale, e il talento va dove ha le migliori opportunità. Ma non rinunciate a costruire qui: pretendete di avere le stesse condizioni che permettono ai vostri coetanei di avere successo in altre parti del mondo, combattete gli interessi costituiti che vi opprimono, che ci opprimono. I vostri successi cambieranno la politica più di qualunque discorso o rapporto , costringeranno regole e istituzioni a cambiare. L’ Europa tornerà a essere un magnete per capitale e talento. La voce di chi vuole che l’Europa si rinnovi suonerà sempre più forte. Nel nostro tempo, questo è ciò che significa servire il proprio Paese. Quando incontro giovani scienziati e imprenditori in tutta Europa, vedo questo modo di pensare emergere. Vedo una generazione determinata a usare le proprie competenze con responsabilità. E vedo una convinzione crescente che questo futuro possa—e debba—essere costruito qui.