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Incentivare la leva, sì ma come? Le mosse della Difesa

Lorenzo Borga

Personale in calo, mezzi da riammodernare e bilanci ancora fermi all’era pre-Ucraina: l’Italia tenta di seguire Francia e Germania, ma oltre al consenso dell'opinione pubblica e del Parlamento servono anche risorse. Qualche numero

Dopo Germania, Francia e Polonia, l’Italia batte un colpo. Il ministro della Difesa Guido Crosetto, che da tempo insiste per rinforzare gli organici delle forze armate, ha rotto gli indugi e annunciato che proporrà a Consiglio dei ministri e Parlamento un disegno di legge per introdurre un modello di leva incentivata. Una proposta che non avrà vita facile, vista la netta ritrosia a prendere coscienza della nuova realtà da parte della Lega nel governo e della sinistra in Parlamento. Gli esempi di Francia e Germania dimostrano che decisioni simili hanno successo solo se sostenute dal più ampio arco parlamentare possibile: in Germania l’accordo è stato trovato dal governo di coalizione, mentre in Francia il Rassemblement National sostiene la misura con una rara postura bipartisan.

Ma se il governo italiano vorrà introdurre un percorso di leva volontaria e incentivata, non dovrà preoccuparsi soltanto di convincere Parlamento e opinione pubblica. Il servizio militare infatti costa, e pure parecchio. E oggi le casse della Difesa rimangono ancora progettate per i bisogni precedenti allo scoppio della guerra in Ucraina. L’Italia è tra i pochissimi paesi europei che non hanno incrementato il budget per la difesa rispetto al pil: nel 2025 grazie a un riconteggio delle spese esistenti – includendo cioè voci prima escluse dai dati presi in considerazione dalla Nato – siamo riusciti ad agganciare il target del 2 per cento del pil, ma senza un sostanziale aumento delle disponibilità per la sicurezza nazionale. Qualche euro in più arriverà nel 2026, quando l’Italia dovrebbe uscire dalla procedura di infrazione europea per deficit eccessivo, e dunque aderire alla clausola di flessibilità di bilancio per le spese militari. Così la dote per il ministero della Difesa potrebbe salire di circa 12 miliardi di euro in un triennio. Soldi che serviranno primariamente a riammodernare i mezzi militari, su cui il nostro paese soffre un ritardo tecnologico e numerico cronico. A oltre un anno dall’accordo raggiunto tra Leonardo e Rheinmetall per la fornitura di oltre 1.000 veicoli corazzati e blindati per l’Esercito italiano, è stata contrattualizzata la fornitura dei soli primi 21 mezzi cingolati per la fanteria Lynx. Ancora nessun contratto è stato firmato invece per i nuovi carri armati Panther, che per ora faticano a trovare mercato in Europa. Nel frattempo, la Germania procede spedita con annunci e firme di ordini da centinaia di mezzi che si susseguono di mese in mese.

D’altronde il numero di effettivi nelle forze armate italiane continua a seguire un percorso discendente. Oggi il personale militare – tra Esercito, Marina e Aeronautica – ammonta a quasi 167.000 uomini e donne. Entro un decennio questo numero è destinato a ridursi (!) a 160 mila. Un numero che l’ex capo di Stato maggiore Giuseppe Cavo Dragone aveva definito sotto “il limite di sopravvivenza”. Il taglio del personale oggi appare, purtroppo, antistorico e in netta controtendenza con le decisioni degli altri paesi europei. Il governo Meloni ci aveva già messo una pezza nel 2023 quando – attuando la legge 119 del 2022 – aveva posticipato negli anni e ridotto il taglio degli effettivi. Ma buona parte di quella legge delega è rimasta ancora lettera morta. Il provvedimento lasciava all’esecutivo il compito di istituire una riserva ausiliaria di 10.000 unità: in sostanza ex militari under 40 richiamabili in servizio rapidamente in caso di conflitto o grave crisi nazionale. I decreti attuativi non hanno mai visto la luce, nonostante i diversi richiami pubblici del ministro Crosetto, tanto che la delega al Governo è stata rinnovata per ulteriori 24 mesi, al 2026.

Gli altri paesi europei stanno incontrando notevoli difficoltà ad arruolare giovani per riempire le fila delle proprie forze armate. Proprio a questo servono i programmi di leva volontari e incentivati: a chi si arruola vengono promessi buoni stipendi (la carota) e a tutti viene richiesto di sottoporsi a questionari e visite mediche (il bastone). Anche le nostre forze armate faticano ad avvicinare giovani disposti ad arruolarsi, benché segnali positivi siano arrivati dagli ultimi concorsi, ma sono appesantite anche da un problema in più: la cronica mancanza di fondi. Un servizio militare per i neomaggiorenni, benché volontario, richiede strutture, alloggi, personale dedicato all’addestramento. E oggi la coperta è ancora troppo corta.
 

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