
Il caso
Lo sprint di Meloni per arrivare al referendum sulla giustizia i primi mesi del 2026
La premier spinge affinché l'ultimo sì del Senato alla riforma arrivi a ottobre, prima che inizi l'iter della legge di Bilancio. Sarà la maggioranza a chiedere la consultazione nella speranza che sia anestetizzata
Approvare la riforma della giustizia prima che inizi l’iter della legge di Bilancio. Dunque a ottobre, sperando che le agende parlamentari lo permettano. E’ l’obiettivo del governo Meloni e soprattutto del ministro Carlo Nordio. Questo è il primo passaggio, relativo ai tempi, poi c’è il referendum. In questo caso l’idea del centrodestra è di intestarsi la consultazione popolare facendo leva su un quinto dei membri di una Camera che, come prevede la costituzione, può richiedere il referendum confermativo. Prima sarà licenziata dalla Camera la riforma, prima ci sarà il responso delle urne. L’ideale sarebbe nei primi mesi del 2026. Per sperare che la separazione delle carriere e la modifica del Csm non diventino un’ordalia sul governo. Impresa non semplice, visto l’atteggiamento Pd, Avs e M5s pronti a caricare d’importanza l’appuntamento.
Ma sarà così? Da una parte, sondaggi alla mano, il governo Meloni è convinto che l’opinione degli italiani sul funzionamento della magistratura sia negativo. E questa sarà una spinta non banale per la campagna referendaria. Allo stesso tempo la presenza di un unico quesito specifico su una materia fa sì che l’argomento – sulla carta – non mini la stabilità dell’esecutivo anche in caso di un risultato avverso. Inoltre, sempre dalle parti di Fratelli d’Italia sperano di ripetere l’esito degli ultimi referendum sul lavoro puntando sullo smarcamento di Azione che voterà sì e con la libertà di coscienza che potrebbe dare Matteo Renzi agli elettori di Italia viva. Il fronte del “no” non sarà dunque composto da un campo larghissimo. Riuscirà Meloni ad anestetizzare questo passaggio senza ripercussioni sulla legislatura? Molto dipende dai tecnicismi legati ai tempi che in questa partita a scacchi sono fondamentali. Calendario alla mano l’ultimo sì alla riforma non potrà avvenire prima del prossimo 22 ottobre perché devono passare tre mesi dall’ultima lettura, avvenuta appunto lo scorso 22 luglio. E ancora: la terza lettura confermativa dovrebbe partire dalla Camera a settembre per approdare poi a Palazzo Madama. Ovvero: il ramo del Parlamento da cui inizieranno i lavori per la legge di Bilancio che blocca tutti gli altri lavori dell’Aula salvo espresso accordo in conferenza dei capigruppo di maggioranza e opposizione. Insomma, gli ultimi due passaggi del ddl costituzionale, per quanto formali e veloci, sono ancora tutti da gestire. Di sicuro, al momento, c’è la volontà del centrodestra di intestarsi il referendum, senza rincorrere i comitati del no che nasceranno nella saldatura tra un pezzo di magistratura e le opposizioni.
Parlando con i vertici del partito c’è la consapevolezza che “la campagna elettorale di un pezzo importante di toghe stia per iniziare”. Gli sviluppi del tribunale dei ministri sul caso Almasri sono attesi con un misto di ansia, preoccupazione e rassegnazione. Nonostante l’auspicio di Sergio Mattarella espresso ieri durante la cerimonia del Ventaglio, nel principale partito di governo c’è la forte impressione che si andrà verso “fortilizi contrapposti”. Allo stesso tempo ieri a Palazzo Chigi ma anche in via della Scrofa hanno notato con enorme sollievo come il presidente della Repubblica, nonché capo del Csm, non abbia mandato alcun alert sulla riforma. Per questo Meloni ha fretta di chiudere l’iter parlamentare e poi di presentarsi davanti agli italiani per incassare il sì. Difficilmente una volta che il Senato avrà licenziato per l’ultima volta il ddl potranno passare meno di sei mesi: i tempi tecnici sono questi. All’interno del governo e della maggioranza chi si occupa dei lavori dell’Aula frena sul timing per i motivi illustrati prima: la legge di Bilancio che parte da Palazzo Madama rappresenta un ostacolo e rischia di far scivolare tutto addirittura a gennaio del 2026 con la consultazione fissata a settembre. Gira anche questo scenario, considerato non positivo perché cadrebbe troppo a ridosso della campagna elettorale del 2027, saldando così la giustizia con tutto il resto. Meloni ha sempre detto che in caso di esito negativo dei referendum sul premierato (che ci sarà nella prossima legislatura) e separazione delle carriere non si dimetterà. Sullo sfondo resta la sensazione di accerchiamento da parte della magistratura, nonostante le inchieste in questo momento stiano colpendo il Pd, che dicono di sentire in maniera palpabile dentro Fratelli d’Italia: “Vedrete, ci aspettiamo un agosto carico di brutte sorprese”, dice un importante esponente del partito di Meloni.