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Rapporti alla mano/6

L'Italia e il mondo. Che posto ha il nostro paese nella globalizzazione

Sabino Cassese

Economia, commercio, migrazioni, cultura. Perché gli stati, prima o poi, devono aprire ad altri stati. Un rapporto dell’Istat e qualche altra domanda

Si chiama globalizzazione, oppure mondializzazione, oppure internazionalizzazione, oppure multilateralismo. Alcuni paesi preferiscono il primo termine: così quelli anglosassoni. Altri paesi, come la Francia, preferiscono il secondo. I quattro termini non sono perfettamente sinonimi ma indicano tutti l’apertura degli Stati ad altri Stati, il superamento delle frontiere nazionali. 

Perché questo accada si può spiegare in vari modi. Perché vi sono problemi che gli Stati non possono affrontare da soli, come quello del riscaldamento del globo. Perché vi sono problemi che sono interconnessi, per risolvere i quali non bastano gli Stati, come quello del traffico aereo. Perché, dopo le due guerre mondiali del secolo scorso, si sono affermati principi ultra-nazionali, come quello del divieto di ricorrere alla schiavitù o al lavoro forzato, che si vogliono imporre agli Stati. Perché è nell’interesse degli  Stati consentire alle imprese nazionali di raggiungere mercati più ampi per la vendita dei propri prodotti e servizi, oppure di produrre a minori costi grazie alle cosiddette catene globali del valore, cioè decentrando una parte della produzione in paesi dove i costi sono inferiori. 
Ma la globalizzazione incontra ostacoli in interessi e culture che la contrastano, per cui è difficile definire principi e regole condivisi da tutti. Donde il suggerimento dei realisti, che consigliano di riconoscere il ruolo tuttora dominante degli Stati, che sono pro-quota i padroni del mondo, e tutt’al più di pensare ad accordi regionali, per zone geografiche. Quale posto ha acquisito l’Italia in questo processo che chiamiamo globalizzazione?

 

Storia dell’internazionalizzazione dell’Italia dall’unità ad oggi

Molti elementi per una risposta a queste domande vengono da una breve ma concisa “Storia dell’internazionalizzazione dell’Italia dall’unità ad oggi”, prodotta nelle settimane scorse dall’Istituto nazionale di statistica - Istat.  Questa storia considera molti aspetti: lo sviluppo delle importazioni e delle esportazioni, anche per settore merceologico, l’andamento strutturale dell’export, i movimenti di capitali, le entrate doganali, i movimenti turistici, le rimesse degli emigranti, lo sviluppo delle imprese multinazionali, gli investimenti diretti all’estero, nonché l’internazionalizzazione culturale, misurata con le lingue straniere parlate e con l’introduzione di vocaboli inglesi nella lingua d’uso corrente. 

Tenendo in considerazione tutti questi elementi, lo studio permette di notare l’andamento complessivo dei 160 anni di storia unitaria, dalle modeste aperture iniziali al protezionismo e all’autarchia, fino all’apertura seguita a partire dalla storia repubblicana.

L’Istat conclude che “per la quasi totalità della sua storia l’Italia è stata caratterizzata da deficit cronici nella bilancia commerciale, che venivano compensati in parte da surplus nei servizi, particolarmente grazie al turismo. A far quadrare la bilancia dei pagamenti e attenuare la vulnerabilità finanziaria, soprattutto a cavallo tra ’800 e ’900 hanno contribuito notevolmente le rimesse degli emigrati, che oggi sono invece negative, ma anche investimenti e prestiti esteri non sempre facilmente accessibili. Oggi, invece, l’Italia è un investitore netto”.

“La rilevanza degli scambi internazionali, oggi superiore di oltre quattro volte rispetto al livello dei primi anni post-unitari, è cresciuta quasi ininterrottamente dal secondo dopoguerra, col processo di multilateralizzazione degli scambi avviato nel 1948 con il Gatt, l’istituzione della Cee (dal gennaio 1958) e, più recentemente, dell’Organizzazione mondiale del commercio (1995)”. L’ultimo mezzo secolo di questo percorso è caratterizzato da un’ulteriore espansione dell’internazionalizzazione commerciale, prodotto dalla spinta molto forte derivane dalla istituzione della Comunità economica europea, in particolare.

Infine, nel triennio 2017-2019, “il valore delle esportazioni di beni e servizi in Italia equivaleva a più del 30 per cento del Prodotto interno lordo: un livello simile rispetto alla Francia e al Regno Unito e poco inferiore rispetto alla Spagna, mentre l’economia tedesca è commercialmente molto più integrata con il resto del mondo, nonostante sia quella di dimensioni maggiori”. Considerando solo le esportazioni di merci, l’Italia è seconda dopo la Germania; per i servizi, invece, è la meno internazionalizzata del gruppo, e con un divario crescente. 

Oltre allo sviluppo di importazioni ed esportazioni, è significativo il ruolo delle imprese multinazionali nell’economia italiana e l’internazionalizzazione delle aziende nazionali: le 15 mila imprese a controllo estero contano in Italia 1,5 milioni di addetti e le circa 24 mila imprese estere a controllo italiano nel 2020 contano 1,7 milioni di addetti. Quanto alla internazionalizzazione culturale, nel 2016, circa i 2/3 degli adulti in età compresa tra i 25 e i 64 anni dichiaravano di conoscere almeno una lingua straniera, con un aumento di circa 6 punti percentuali rispetto al 2011. L’incidenza sale fino a oltre l’80 per cento per le persone tra 25 e 34 anni. Infine, tra le 7.050 parole che formano il vocabolario di base della lingua italiana – secondo Tullio De Mauro – quelle di derivazione inglese erano poco più di 10 nel 1980, mentre nel 2016 erano 129.

Istinti nazionalistici e interessi commerciali

Nell’apertura agli altri paesi e alle altre economie del mondo si contrappongono istinti nazionalistici e protezionistici della politica e della popolazione a interessi ad abbattere le frontiere doganali e allo sviluppo dell’Organizzazione mondiale del commercio, sotto la spinta di imprese che mirano sia ad allargare la produzione, sia ad ampliare la vendita ad altri paesi. L’analisi storica dell’Istat potrebbe insegnare molto ai “policy-makers”. Qualche esempio. In primo luogo, potrebbe far comprendere che il processo di internazionalizzazione, anche se è andato più rapidamente avanti nel campo economico-finanziario, ha caratteristiche unitarie, e che quindi si dovrebbe tentare di farlo sviluppare su tutti i fronti, dal sistemi sanitari a quelli educativi, alla cultura, alla sanità, alle infrastrutture.

Secondo: un paese che perde cittadini è interessato ad accettare immigrati, integrandoli invece che facendoli fuggire altrove, o semplicemente tollerandoli. E’ consigliato dalla esperienza degli 8 milioni e mezzo di emigrati italiani nel corso dei 160 anni di storia a integrare gli immigrati perché  diventino cittadini educati e osservanti delle leggi. 

Terzo: un paese interessato agli interscambi commerciali è anche interessato a ripensare l’impianto di quei poteri che vanno sotto il nome di “Golden Power” o almeno a chiedersi se è necessario estenderli a un ambito così vasto, considerando che nella pratica sono ben poche le autorizzazioni non concesse e relativamente poche quelle concesse con prescrizioni.

Quarto: per internazionalizzare, occorre che vi sia un certo numero di regole giuridiche comuni, condivise in aree diverse del mondo. Tra queste regole vi sono quelle che riguardano il rispetto dei diritti. Un viaggiatore che si trasferisca temporaneamente, per lavoro o per turismo, in altri paesi, dovrebbe  vedersi riconoscere in questi paesi un “pacchetto” standard di diritti eguali per tutti e in tutte le parti del globo.

Quinto: gli Stati interessati alla globalizzazione dovrebbero parificare o almeno bilanciare la loro apertura internazionale nei diversi settori. Se un paese come l’Italia è fortemente interessato alla esportazione di merci, come è dimostrato dall’indagine Istat, non può, poi, chiudere le proprie frontiere in altri settori, perché una internazionalizzazione a macchia di leopardo resta squilibrata.

 

Si poteva fare meglio?

Detto tutto il bene possibile di questo rapporto dell’Istat, ci si può chiedere se si poteva anche fare meglio. Per avere un quadro più completo dell’internazionalizzazione del paese sarebbe stato utile, innanzitutto, accertare di quanti dei 2000 sistemi regolatori globali fa parte l’Italia, rispetto agli altri tre paesi dell’Unione europea (Francia, Germania e Spagna) con i quali questo rapporto stabilisce comparazioni: in questo modo si potrebbe cercare di capire che cosa riesce a fare l’Italia nel ruolo di co-regolatore.

In secondo luogo sarebbe stato interessante accertare quanti sono gli istituti italiani di cultura all’estero, e compararne il numero con i corrispondenti istituti stranieri in Italia: in questo modo si potrebbe accertare come si diffonde la cultura italiana e in quale misura si è influenzati dalle altre culture.

In terzo luogo, sarebbe stato interessante sapere quanti libri stranieri si traducono annualmente in Italia e quanti libri stranieri sono in possesso di biblioteche italiane, per misurare l’apertura della cultura italiana a quella di altri paesi.
 

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