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C'eravamo tanto odiati. Multinazionali in Italia, la destra ci ripensa

Lorenzo Borga

La premier e altri ministri hanno spesso criticato le aziende estere che operano in Italia. Ma per fortuna adesso il governo ha cambiato atteggiamento

La normalizzazione di Fratelli d’Italia e del governo Meloni passa anche dalle multinazionali. Il messaggio è arrivato chiaro dal G7 Industria e Tecnologia di Verona e Trento, organizzato dai padroni di casa Adolfo Urso e Alessio Butti. Il ministro delle Imprese e del Made in Italy lo ha detto in conferenza stampa: “Non stupitevi, l’Italia oggi è molto attraente per gli investitori esteri”. Urso nel corso dell’ultima settimana ha in effetti messo a segno il primo grande colpo del calciomercato degli investitori stranieri: Silicon Box, azienda di Singapore produttrice di microchip, ha annunciato l’esborso di 3,2 miliardi di euro in Italia per costruire un impianto. Il più importante investimento estero dalla pandemia, che sarà coperto in parte anche da un contributo pubblico di cui non si conosce ancora l’entità.
Ma l’apertura ai capitali esteri è una novità per la destra italiana, o almeno per parte di essa.

 

Secondo Giorgia Meloni le multinazionali sono i veri evasori fiscali (26 maggio 2023) e vanno combattute per salvare il commercio di prossimità (31 maggio 2022). Sull’account X della premier vengono citate 19 volte, sempre per criticare le stesse aziende o i passati governi italiani che ne avrebbero fatto gli interessi. Lo stesso ministro Adolfo Urso – la cui storia parrebbe insospettabile essendosi occupato per anni di commercio estero e internazionalizzazione delle imprese – è incappato nella retorica non-passa-lo-straniero: il 2 agosto dell’anno scorso disse di voler “valorizzare chi agisce nel nostro paese, e semmai frenare e contrastare le multinazionali”. In quel caso da attaccare c’era Uber e da difendere gli interessi delle italianissime cooperative di taxisti, una constituency elettorale cara a Fratelli d’Italia. Una contraddizione in termini. Solo pochi giorni prima lo stesso ministro aveva presieduto il Comitato Attrazione Investimenti Esteri rilasciando una dichiarazione entusiasta: “L’Italia è il miglior paese in cui investire oggi”.

 

Se così sarà, sarebbe una novità. Negli ultimi tre decenni l’Italia non ha brillato per capacità di attrarre investitori esteri. Secondo i dati della Banca Mondiale, tra il 1990 e la pandemia il nostro paese è sempre rimasto sotto la media europea per flussi di investimenti esteri diretti in rapporto al pil. Nello stesso periodo Germania, Francia e Spagna hanno fatto meglio di noi, e la stessa Grecia nel corso degli ultimi anni ci ha superato. Secondo il terzo rapporto annuale della Commissione europea sugli investimenti esteri, l’Italia è solo l’ottavo paese per numero di investimenti volti alla creazione di nuove società e costruzione di siti produttivi da zero (i cosiddetti investimenti greenfield). Veniamo superati dai soliti spagnoli, francesi e tedeschi, ma anche da olandesi, irlandesi, polacchi e portoghesi. La Spagna è un caso di scuola per il settore automotive: priva ormai da quasi quattro decenni di un marchio nazionale, ha una produzione di autoveicoli quasi tre volte più importante che quella italiana. Chi vuole investire nel nostro paese preferisce, al più, comprare società già fatte e finite: e infatti per il numero di acquisizioni saliamo alla terza posizione in Unione Europea. Brutto segnale per l’economia nazionale, considerata evidentemente difficilmente scalabile e con ostacolanti barriere all’ingresso.

 

Oggi finalmente alcuni membri del governo sembrano esserne consapevoli. Lo stesso Urso ha raccontato di aver messo in campo diverse task force per sondare la disponibilità a investire da aziende estere, nel campo dei microchip (e da qui è arrivata Silicon Box) e in quello delle auto e batterie elettriche (“siamo in contatto con tre gruppi cinesi” ha detto Urso). La piroetta retorica della destra è stata imposta dal ritorno di moda della politica industriale. Dalla pandemia in poi si è diffusa la convinzione di dover riaccorciare alcune catene di fornitura globali per evitare i rischi di una globalizzazione frammentata. Ed è dunque partita la corsa al sussidio pubblico per accaparrarsi i migliori investimenti privati. L’Italia finora ne è uscita malconcia, a partire dallo smacco di Intel che dopo aver promesso un impianto da oltre 4 miliardi in Italia alla fine si è concentrata sugli investimenti in Germania, Francia, Polonia e Irlanda (a suon di sussidi pubblici miliardari). Attendiamo i risultati dei ponti d’oro del nuovo corso meloniano.

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