Il provinciale

Salvini vuole resuscitare le province con un ddl. Sul terzo mandato non cede e corteggia il Pd

Carmelo Caruso

E' ancora scontro sul terzo mandato. Il leader della Lega non fa ritirare l'emendamento e rilancia: per attirare gli amministratori dem intende ripristinare le province

Salvini è un provinciale. La Lega vuole ripristinare le province. Intende farlo con un ddl, di corsa. Si torna alla vecchia maniera: elezioni dirette, indennità, cariche pagate, presidente, assessori. E’ un modo per restituire centralità ai politici locali, infastidire Meloni, favorire alleanze tra ribelli. La proposta di legge che le resuscita sarà presentata dal deputato e segretario della Liga Veneta, Alberto Stefani, con l’aiuto del ministro  Calderoli. Il Pd riformista può convergere, come sul terzo mandato che continua a chiedere  la Lega. L’emendamento, voluto da Salvini, non è stato ritirato. Il Senato lo ha dichiarato ammissibile e sarà messo al voto. Il risultato della Sardegna si carica di ulteriore significato.     Lontano da Palazzo Chigi  si brevetta  l’Italia larga, il piatto che tiene dentro il mare, che mette insieme Fedriga-Zaia-Bonaccini-De Luca-Decaro, i compari d’Italia. Sono i caciucchi.


Sta cambiando clima e non solo a Milano città. Per un altro giorno ancora, la Lega ha giocato a gatto e topo con Meloni. La Sardegna, il risultato incerto, sta motivando la Lega. Oggi, Meloni, Salvini, Tajani, e pure Cesa e Lupi, saranno sullo stesso palco, a Cagliari, per la foto di famiglia e sostenere il candidato Paolo Truzzu. Si abbracciano in pubblico, ma faranno i conti in privato. Dopo. Lunedì sera. Se dovesse accadere l’impensabile per la destra, la sconfitta, la Lega chiederà di rimettere in discussione la candidatura di Vito Bardi, Forza Italia, in Basilicata. Salvini, che deve ancora fare dimenticare il suo armadio, le sue felpe con il faccione di Putin, ieri mattina, in radio, lasciava capire che, sul terzo mandato, avrebbe ordinato ai suoi la ritirata. Bluffava. L’emendamento collegato al dl Elezioni, presentato al Senato dall’ex ministra Erika Stefani, Mara Bizzotto, Paolo Tosato, gli irriducibili del Regno delle Tre Zaie, di pomeriggio, non solo non era stato ritirato, ma veniva definito ammissibile (alla Camera l’analogo, di Costa, era stato bocciato). Il presidente della Commissione Affari Costituzionali, Balboni, di FdI, si è subito affrettato a dire che il voto slitta di una settimana. In piena furia agonistica, sempre Balboni, imprecava contro Bonaccini, governatore del Pd, che “deve trovarsi un’altra sistemazione”. Bonaccini rispondeva a Balboni: “Forse avete paura di perdere?”. Meloni avrebbe già concordato la linea con Forza Italia. Si teneva uno dei soliti tavoli, sulle prossime comunali, tra responsabili del centrodestra (per Meloni gli incaricati erano Lollobrigida e  Donzelli, per Tajani c’era Gasparri, per la Lega, il responsabile Locatelli) e la premier ha fatto arrivare un messaggio all’emissario di Salvini: “Se quell’emendamento sul terzo mandato va al voto, sappiate che verrà bocciato”. Che verrà bocciato è da vedere.

Due giorni fa, in direzione Pd, ha preso la parola Antonio Decaro, sindaco di Bari, presidente Anci, e ha elencato una serie di esempi di sindaci tedeschi e francesi che sono rimasti in carica anche trentasei anni. E’ un altro che sostiene la causa della Lega. Quando si dice che Salvini ha naso, fiuto, per tutto quello che gli fa comodo, si vuole dire questo. Luca Toccalini, che è segretario della Lega giovani, un altro su cui Salvini sta puntando (organizzerà il 16 marzo, a Milano, un evento) per strada, tra Montecitorio e Senato, si rimetteva alla volontà del Parlamento e ricordava che “in Parlamento siedono anche eletti del Pd sensibili a queste istanze”. Il sindaco di Pesaro, Matteo Ricci, ha dichiarato che “il Pd si riunirà e credo che alla fine dirà di sì al terzo mandato”. Da mesi si parla dell’Italia larga, dell’intesa tra caciucchi, con la u, come il piatto di pesce  (D’Alema li chiamava i caicchi) i governatori Pd e Lega, ma venerdì scorso, dopo la manifestazione di Vincenzo De Luca, e dei sindaci campani, pure nel Pd, questo fenomeno straordinario spaventa. Governatori + sindaci sono ormai un über governo. Il loro consenso non può essere manipolato né da Meloni né da Schlein; è un consenso che nel Pd viene raccontato come speciale perché “sono preferenze ma in realtà non sono voti”. Sono preferenze sulla persona e non si trasmettono al partito e non servono neppure a vincere referendum. Salvini ora li attira, li modella come pasta di pane. La proposta delle province è un suo vecchio pallino.

Già questa estate, in conferenza stampa, aveva detto che era necessario ripristinarle dopo averle abolite. Ora c’è l’iniziativa di Stefani che riprende un testo precedente, una proposta già assemblata dall’ufficio legislativo della Lega a firma Bitonci, Molinari. Sono rivendicazioni che nascono, sempre, in Veneto, una regione dove l’armonia Pd-Lega, Pd-Zaia è così perfetta che Zaia potrebbe correre pure con il simbolo del Pd. Nel progetto di Stefani si ritorna a prima della riforma delle province, quella dell’ex ministro Delrio. Al momento le province esistono ma come surrogati. Si viene indicati con elezioni di secondo livello e non prevedono emolumenti. Ripristinarle serve alla Lega come uscita di sicurezza. Con Meloni l’idea di spedire  i leghisti non eletti nelle società partecipate non è più praticabile. Si verrebbe eletti con elezioni vere e nelle regioni funzionerebbero come primarie. In Veneto si potrebbe verificare ad esempio il consenso di uno come Mario Conte, sindaco di Treviso. Dalle province fino al terzo mandato passando per abuso d’ufficio, Salvini trova nei rivali interni, e nel Pd, il filtro che gli allunga la vita da segretario. Lotta per il terzo mandato di Zaia ma è il suo che vuole rinnovare.

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  • Carmelo Caruso, giornalista a Palermo, Milano, Roma. Ha iniziato a La Repubblica. Oggi lavora al Foglio