Nomine e governo
Il partigiano Gianni (Letta), l'arcinemico di Meloni che teme i suoi amichetti
E' il solo che finora ha piegato la premier, irata per la recente nomina di De Fusco, amico di Gianni Letta: "Complimenti, ora alla Scala mandiamo Giuliano Amato"
Meloni dice “do io le carte”, ma Gianni Letta le disegna. E’ il partigiano Gianni. L’unico vero rivale che la premier non riesce a battere è lo zio, di Enrico, 88 anni, l’uomo che ha fatto la fortuna di Berlusconi e che come Berlusconi, l’ultimo, quello del foglio al Senato, ritiene la premier “arrogante”. Il fantasma non è John Elkann, ma lui. Con la tattica, ha piegato Meloni sulle nomine Enel, suggerito Giuliano Amato, che si è dimesso, alla presidenza della Commissione algoritmi. Ha un piede nel cda Rai, sodali in FdI. Con Draghi beve il Campari. Con Goffredo Bettini si telefona ogni giorno. Stravede per Renzi. Ha preso per il naso Sangiuliano e Mollicone che credono De Fusco, il nuovo direttore del Teatro di Roma, amico loro. Quando Meloni ha saputo di De Fusco, che pure ha pubblicamente difeso, raccontano che abbia reagito in questa maniera: “Complimenti, avete scelto l’uomo di Gianni Letta, ora mandate Amato alla Scala”.
Se c’è qualcuno che Meloni, dopo un anno e mezzo di governo, teme, quel qualcuno non è ovviamente Schlein, e non sono neppure Gentiloni, Salvini, la Commissione Ue. E’ lo zio Letta, l’uomo il cui adagio è “quindici minuti di ascolto non si negano a nessuno”. I locandieri di Meloni, Sangiuliano e Mollicone, neppure sapevano che l’aiuto regista di De Fusco, il direttore che hanno nominato a Roma, è stata Marina, figlia di Letta. Ospite da Nicola Porro, la premier ha ricordato che in Rai, pochi anni fa, “FdI è stato l’unico partito di opposizione che non esisteva nel cda. Se fosse accaduto alla sinistra sarebbero arrivati i caschi blu”. Non sarebbero arrivati. Gianni Letta avrebbe chiamato al presidente Onu, Guterres, e spiegato che non era il caso di allarmarsi. L’esclusione di FdI dalla Rai era infatti il risultato di un accordo stipulato dagli amichetti di Meloni. Vennero eletti, e lo sono ancora, due consiglieri, il leghista, De Biasio, oggi anche presidente di Terna, e Simona Agnes, figlia di Biagio che ha voluto lo zio in quota Forza Italia. Giampaolo Rossi, l’attuale dg Rai, il prossimo ad, il predestinato, venne estromesso da chi le carte le sa dare pure quando non le tiene in mano. Il 17 gennaio, Letta, è intervenuto al Senato, per ricordare il cardinale Achille Silvestrini e diceva che “Don Achille era l’addetto alla fontana della speranza e coltivava la diplomazia dell’amicizia”. Letta coltiva ancora il sogno che chi è amico suo, chi gli ha chiesto una grazia, vada aiutato perché, come scriveva Truman Capote, riprendendo Santa Teresa d’Avila “si versano più lacrime per le preghiere esaudite che per quelle non accolte”. Gianni Letta, ha raccontato un lettiano, “risponderebbe con lo stesso garbo pure al mostro di Düsseldorf chiedendo: ‘cavro, cosa posso favre per lei’. Dio può abbandonare suo figlio in croce, ma Letta ha sempre un fazzoletto in tasca”. Esistono tre gradi nel lettismo: segnalazione semplice, segnalazione rafforzata, incontro risolutore. Al momento lo zio è presidente dell’Accademia nazionale d’arte drammatica Silvio d’Amico. Se si scorre poi la voce “cariche attuali” questo è l’elenco: presidente Isle, presidente Associazione Civita, vicepresidente dell’Accademia Santa Cecilia, vicepresidente società Dante Alighieri, presidente della Fondazione per la pontificia università Lateranense, consigliere Fondazione Gemelli, cons. dell’Istituto Toniolo, cons. università Campus biomedico, cons. fondazione Gianni Agnelli, cons. fondazione Cassa di risparmio di Roma, cons. Spencer & Stuart, cons. Italiadecide, presidente Italiacamp, cons. accademia delle Belle arti, presidente premi olimpici del teatro, presidente ass. amici dell’Eliseo, membro cda Fondazione Sordi, presidente Fondazione Zeffirelli, pres. Fondazione Flavio Vespasiano. L’elenco potrebbe essere parziale. Basta moltiplicare le cariche, aggiungere i quindici minuti che Letta concede, e si capisce chi è l’uomo più informato d’Italia. Ogni volta che Meloni si scaglia contro le lobby, che avrebbero tentato di ostacolarla (quelle simpatiche, d’area, avevano accesso nel retropalco di Atreju) lo fa per esorcizzare il ballo delle nomine, la danza preferita da Letta, uno che ha sempre ritenuto Renzi l’erede, politico, di Berlusconi. Lo fa per avvisare in particolare alcuni suoi ministri. Lo fa per buttare zolfo su Luigi Bisignani che secondo FdI resta “una cosa sola con Letta, una ditta”. Pochi mesi fa, e c’erano le locandine prestampate, la premier ha ordinato a Piantedosi e Crosetto di non partecipare alla presentazione del suo nuovo libro. Hanno ovviamente obbedito. Chi parla con i deputati di FdI si sente ogni volta dire: “Che c’è una grande cospirazione romana il cui vertice è Dagospia”. Temono Dagospia più del Financial Times, una bestia che sognano d’ affamare, cosi come il partigiano Gianni, da cui è “meglio stare lontani”. Ai suoi parlamentari, Meloni, anziché raccomandare di fare attenzione con i bossoli e le pistole, di non sparare a Capodanno, ricorda di “evitare Gianni Letta e Denis Verdini”. Con il secondo è più facile. Con il primo è tecnicamente impossibile. Meloni nutre rancore da quando, a Roma, il partigiano Letta gli preferì candidato sindaco Guido Bertolaso, che di Meloni disse: “E’ meglio che faccia la mamma”. L’unica vera volta che è saltata sulla sedia è stata non appena ha letto la frase di Letta che bocciava il premierato. Dice che sarà, quella contro Letta, la sua “battaglia finale”; come se fosse possibile demolire Roma, l’idea che esiste un altro padreterno, basso di statura, accessibile, uno che pure Dio chiama per sapere se ha il nome giusto da consigliare per il cda del purgatorio.
Equilibri istituzionali