(foto Ansa)

i tormenti del truce

Stretto tra Meloni e i governatori, Salvini teme la débâcle. E ora chiede a Zaia di candidarsi

Luca Roberto

Il segretario della Lega ha paura della disfatta alle europee (da cui si è tirato fuori). Così vuole uno sforzo dagli amministratori locali (che gli chiedono più impegno sul terzo mandato)

Va in tv a dire che alle europee candiderà “gli amministratori locali”. Polemizza con Urbano Cairo sugli sconti ai calciatori stranieri che “guadagnano milioni”. Ha ripreso a cucinare risotti col bimby. A Strasburgo sogna Vannacci, ma il suo vero ariete è Zaia. E’ con grande abnegazione che Matteo Salvini sta cercando di ridefinirsi. Intanto, temendo di essere stritolato dalla premier Meloni, s’è tirato fuori dalla corsa elettorale: “Se ci staccano, il governo non ne risentirà”. Eppure il rischio non è solo di non arrivare a quel 14 per cento di cui parla il sottosegretario Durigon. Perché l’altro spauracchio sono le apprensioni dei governatori del nord sul terzo mandato. Così adesso vuole amministratori in lista. Per lunedì prossimo, Salvini ha convocato un consiglio federale che si occuperà proprio di elezioni europee e amministrative. Potrebbe essere l’occasione per annunciare Vannacci candidato, a cui il Capitano ha già chiesto di porsi sull’attenti. Mentre se n’è lavato le mani Gianluigi Paragone, per cui si ipotizzava un ritorno alla casa del padre. “Ma preferisco fare il giornalista”, ha chiarito ieri l’ex direttore della Padania. Eppure per il leader del Carroccio la gran parte delle apprensioni viene dal fronte dei presidenti di regione.

 

A mezza bocca, per ora solo in conciliaboli riservati, Massimiliano Fedriga, Luca Zaia, la classe dirigente nordista, ha l’impressione che dell’abolizione del limite dei due mandati a Salvini non interessi granché. Che al di là delle dichiarazioni di circostanza, la questione non l’abbia posta nelle trattative con gli alleati, che sul punto sono molto più freddi. Per questo ieri Salvini ha ipotizzato che tra chi corre alle europee possano esserci anche sindaci e presidenti di regione, a partire dal presidente del Veneto, quasi a volerli buttare nella mischia al posto suo. S’era scritto che il segretario avrebbe chiesto il via libera al terzo mandato in cambio dell’ok al candidato di FdI in Sardegna. Ma era falso. Questo perché preferisce iscrivere la questione Solinas nel quadro più complessivo delle candidature per le amministrative. Rifiutando logiche di compensazione. Per questo continua a mandare avanti il suo secondo, Andrea Crippa, che ha l’obiettivo di manifestare all’esterno l’immagine di una Lega che non arretra di un centimetro. Il ministro ha continuato a difendere Solinas anche ieri da Bruno Vespa, dicendo che “chi non vuole la continuità, in regioni ben amministrate, deve dire perché mi sbaglio”. Mentre poco prima il ministro Lollobrigida continuava a sostenere Truzzu. Il tavolo con Meloni e Tajani potrebbe riunirsi tra oggi e domani.

Peraltro, le tensioni fra alleati, a meno di cinque giorni dalla scadenza della presentazione delle liste in Sardegna, rischiano di allargarsi non solo alla Basilicata ma anche al Piemonte. Dove nelle ultime ore sono cresciute le scaramucce, in un Consiglio regionale in cui vige un’atmosfera da liberi tutti di fine legislatura. Lì, dovesse cadere Solinas in Sardegna, la Lega potrebbe voler rimettere in discussione l’accordo che porta alla ricandidatura di Cirio. E tra i nomi che circolano come candidati si fa anche quello del capogruppo alla Camera Riccardo Molinari, piemontese. Intanto, per prendersi una pausa dalle questioni più politiche, venerdì Salvini volerà di nuovo a Palermo per un’ulteriore udienza del processo “Open Arms”. Era la stagione pre Papeete, quella che volgendo lo sguardo all’indietro il vicepremier non riesce più a ricreare, neanche artatamente. Neppure se, come ha ripreso a fare adesso, si adopera con delle dirette di show cooking su Instagram o su TikTok. Oppure “assolve” la moglie di Fedez Chiara Ferragni per l’affaire pandori pur di pizzicare Meloni. Lui cucina ma teme, da qui a giugno, di essere cucinato, nel governo e nel partito. E nemmeno a fuoco troppo lento.

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