(foto Ansa)

lega scavallata

Meloni, Zaia e quel patto per il futuro del Veneto

Francesco Gottardi

FdI sprinta per un posto al nord: fumata bianca sull’autonomia e oltre 600 milioni di fondi destinati alla regione. “Mai visto niente di simile”, ammette il presidente. E così i meloniani mettono le mani sul suo successore

Si è sbloccato tutto nel giro di pochi giorni. Giorgia Meloni incorona il Veneto: “La nostra locomotiva d’Italia”. Luca Zaia abbraccia il governo: “Da oggi non siamo più periferia dell’impero”. Eccola, la nuova pax romana. A Palazzo Balbi, quartier generale del governatore, si stropicciano gli occhi: fine dell’immobilismo, la riforma sull’autonomia differenziata ottiene il primo via libera delle due camere, a stretto giro la regione incassa 607,6 milioni di euro per opere pubbliche e infrastrutture. Nessun trucco né inganno. Tutt’al più il marchio di Fratelli d’Italia sulla stagione del cambiamento. La Lega resta a guardare. E in un amen il Veneto intravede il futuro politico che l’attende: a tinte serenissime e tricolori.

 

L’effetto domino è riassumibile pressappoco così. La commissione Affari Costituzionali che la settimana scorsa approva il testo della riforma Calderoli è il segnale che “l’esecutivo in carica fa sul serio: non siamo mai stati così vicini all’applicazione di quanto previsto dalla Costituzione in materia di autonomia”, ammette Zaia. Ma in area Carroccio arriva il monito: la svolta federalista non sarà merce di scambio per il premierato tanto agognato dai meloniani. Giorgia glissa. E rilancia: venerdì scorso “fa i salti mortali per arrivare a Verona” – Zaia dixit – e annunciare l’eccezionale iniezione di liquidità durante un evento di formazione lavorativa. Viene firmato un patto Stato-regione, per ratificare il finanziamento quinquennale (fino al 2027) attraverso i Fondi per lo sviluppo e la coesione. È la prima volta che il Veneto ne beneficia. “Questa terra – dichiara Meloni – chiede solo di correre ancora più veloce: noi vogliamo valorizzarla”. Un ulteriore ‘caparra’ per l’autonomia. Un’irrifiutabile captatio per ereditare il trono di Zaia.

 

Soltanto tre mesi fa, il presidentissimo raccontava al Foglio di confidare ancora nello sblocco dei mandati. Ma è sempre più chiaro che così non sarà: stretti i tempi, altre le priorità di Roma. E in casa FdI si sentono doppiamente legittimati a governare il Veneto. Lo vogliono gli elettori, che pure quassù stanno progressivamente scendendo dal Carroccio. Lo esigono gli equilibri di coalizione: se alle prossime regionali Forza Italia rimetterà le mani sul Piemonte e la Lega sulla Lombardia, non esiste che il primo partito del paese non pianti la sua bandierina al nord. A bocce ferme, dopo la sbornia veronese, è il momento della presa atto bipartisan. Gli amministratori meloniani si inorgogliscono, rivendicano a ragion veduta un traguardo storico. Quelli della Liga allargano le braccia: nel 2018, fresco il risultato del referendum e saldo Salvini al timone, le cose non cambiarono. E ora i militanti – o ribelli o delusi – certo non si immolano per chi ha più a cuore il ponte sullo Stretto. Né per Alberto Stefani, il fedelissimo di Matteo divenuto segretario regionale col benestare di Zaia: sarà concorrenza debole per FdI. Che ad oggi, per quanto presto per il toto- nomi, sembra preferire un candidato tecnico a un profilo politico.

 

Almeno apertamente, i vertici leghisti faticano a ingoiare il rospo. Ma sanno di poterci fare ben poco. Di mezzo resta il nodo europee, dove entrambi i partiti dirotteranno dal locale a Bruxelles alcuni pezzi grossi: FdI ragiona su Elena Donazzan e Daniele Polato, il Carroccio pensa a Elisa De Berti, la vice di Zaia, visto che il numero uno già in estate si era tirato indietro – “funziono meglio in regione”. Ed ecco l’ultimo rebus, di comune interesse per Salvini e Meloni dato il serbatoio di voti in palio: il buen retiro del Doge. Venezia, forse, s’è già detto. Di sicuro con l’onore delle armi e una sontuosa, prolungata uscita di scena. Come la propria firma sul futuro del Veneto: al suo fianco c’è quella di Giorgia. Non di Matteo. À la guerre comme à la guerre.

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