Il ritardo è debito. La lentezza sul Pnrr obbliga il Tesoro a nuovi Btp: così si bruciano oltre 200 milioni

Valerio Valentini

A destra si esulta per i Btp Valore, emessi anche per sopperire i mancati incassi della terza e della quarta rata del Recovery. Ma i rendimenti nazionali sono ben più alti di quelli europei: e ripagare quel debito costerà di più. Il differenziale destinato ad aumentare. L'allarme nella Nadef sul fabbisogno di cassa e la spesa per interessi. Ballano oltre 90 miliardi. L'analisi

A destra c’è chi esulta: “Ciaone Bruxelles”, twitta giulivo Claudio Borghi. E un po’ tutta la Lega suona la grancassa: “Il buon risultato del Btp Valore dimostra che l’Italia non ha bisogno di nessuno”. Si torna al coro antico, nel Carroccio. Quello di quando, era aprile, Matteo Salvini metteva in dubbio la reale utilità dei fondi europei. “Valutiamo se utilizzare tutti i prestiti”, diceva il fido Riccardo Molinari. Come se il problema fosse non la lentezza  nel vedersi assegnati i fondi, ma la scelta di prenderli. E invece le cose stanno esattamente al contrario.

Perché se è vero che il tempo è denaro, allora il ritardo è debito. Specie se si parla di Pnrr.  Il mancato incasso delle rate del Recovery previste nel 2023 ha di fatto prodotto  un maggiore indebitamento nel medio periodo. Nell’ordine delle centinaia di milioni di euro. Ed è una cifra che rischia di aumentare.

A segnalare un certo affanno del Mef, mettendo nero su bianco un malessere più volte filtrato da Via XX Settembre nei mesi scorsi, è lo stesso Giancarlo Giorgetti, a pagina 6 della sua Nadef. “Secondo i dati provvisori relativi ai primi otto mesi dell’anno, il fabbisogno di cassa è salito a 77 miliardi, con un aumento di 43,3 miliardi rispetto ai 33,7 miliardi del corrispondente periodo del 2022”. Confronto impietoso, che lo stesso ministro giustifica alla luce dei ritardi nella riscossione della terza e della quarta rata del Pnrr. Nel complesso, 35 miliardi tra prestiti e sovvenzioni (quasi l’intero differenziale rispetto al 2022): soldi che, quando arriveranno, si legge infatti nella Nadef,  “contribuiranno al miglioramento del fabbisogno”.

Ora, è evidente che a questo ammanco di risorse il governo ha dovuto sopperire nell’unico modo possibile: emettendo maggiori titoli di stato. E qui si viene, appunto, al confronto evocato, sia pure in una luce deformante, dagli esponenti della Lega. Significativamente, infatti, le due emissioni del Btp Valore equivalgono grosso modo alle rate sospese del Pnrr: a giugno vennero raccolti 18,2 miliardi (poco meno dei 19 previsti, poi decurtati a 18,5, del Recovery); pochi giorni fa, la seconda asta ha portato in dote al Tesoro 17,2 miliardi (cifra assai simile ai 16,5 miliardi attesi da Bruxelles per la quarta rata). Tutto risolto, dunque?

Mica tanto. Perché, nel confrontare i rendimenti dei due prodotti, si capisce subito che il ritardo accumulato dal governo nell’attuazione del Pnrr ha un costo. Tra maggio e giugno,  quando l’Italia avrebbe potuto incassare la terza rata se avesse rispettato le scadenze concordate con Bruxelles, le emissioni  della Comissione europea, quelle che avrebbero garantito i prestiti all’Italia, avevano un rendimento che si aggirava sul 3 per cento. E 10 dei 18,5 miliardi della terza rata erano appunto loans. Il Btp Valore, nel frattempo, emetteva titoli al 3,6 per cento medio (su quattro anni). A conti fatti, e pur essendo il raffronto solo rappresentativo, si tratta di 50 milioni di euro in più che l’Italia dovrà pagare per il servizio al proprio debito.

Discorso analogo vale per la quarta rata. Che contempla 27 obiettivi con scadenza prevista a giugno scorso, e che dunque il governo avrebbe potuto puntare a incassare in queste settimane (nelle quali ancora si attende il bonifico relativo alla terza, di rata). La quarta rata vale 16 miliardi, previsti tutti sotto forma di prestiti: e il rendimento attuale delle emissioni europee sta intorno al 3,3/3,4 per cento. Il gran successo celebrato da Giorgetti per la seconda puntata del Btp Valore, riguarda un’asta che ha visto pochi giorni fa il Tesoro piazzare 17,2 miliardi al 4,3 per cento medio annuo (con scadenza al 2028). E’ un punto  di differenziale: significa 160 milioni di maggiori interessi che l’Italia dovrà pagare. Sommati a quelli della terza rata, fanno circa 210 milioni: tanto è costato, a stare cauti, il ritardo sul Pnrr nel 2023. 

E il discorso vale a prescindere dal raffronto col Btp Valore. Se pure si considerasse quest’ultimo come un prodotto eccezionale, e si sostenesse che al mancato incasso delle due rate sospese del Pnrr si è sopperito coi tradizionali buoni decennali, il costo dei ritardi nell’attuazione del Piano sarebbe ancora più grave: visto che in estate i rendimenti s’aggiravano intorno al 3,8 per cento, e in questi giorni si è ormai addirittura a ridosso della soglia del 5 per cento. Il che dice bene anche di come i ritardi che verranno accumulati, sul Pnrr, avranno un costo sempre maggiore, nei prossimi mesi, dal momento che il differenziale tra i rendimenti europei e quelli italiani è destinato ad aumentare. E con uno spread che ormai viaggia oltre i 200 punti base, difficilmente questa tendenza si invertirà a breve. E dunque l’Italia, rinunciando ad approfittare dei benefici garantiti dal Pnrr sul terreno dei prestiti, aggraverà un fardello che è già arduo da sostenere, nelle previsioni del governo. Nella Nadef, per il 2026, si stima una spesa per interessi che raggiungerà il 4,6 per cento del pil: sono più di 90 miliardi, e fa impressione solo pensarci.
 

  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.