Giorgetti esulta sul Patto di stabilità. Ma sul taglio del debito mancano almeno 18 miliardi

Valerio Valentini

La nuova proposta di Bruxelles accoglie in parte le richieste italiane sullo scorporo dei finanziamenti connessi al Pnrr. Ma sulla riduzione del debito pubblico ora si rischia la beffa. Ballano fino a 50 miliardi in tre anni

Più che sforzarsi per accettarla, dice di doversi limitare a non ripudiarla. Cosa che non farà, evidentemente, Giancarlo Giorgetti,  il quale della proposta sul nuovo Patto di stabilità elaborata dalla presidenza spagnola del Consiglio dell’Ue, e offerta come compromesso ai ministri di Economia e Finanze del continente, rivendica in buona sostanza la paternità. Se poi si risolverà davvero in un trionfo, il negoziato, dipende dalla definizione di ciò che è ancora lasciato vago, nel paper diffuso da Nadia  Calviño: ed è un’incognita che conterà molto, nel bilancio  della trattativa. Ma fin d’ora bisognerà considerare che nessuna  vittoria negoziale sullo scorporo degli investimenti varrà ad allentare i vincoli sul vero problema italiano: il debito pubblico.

E qui, anzi, tocca segnalare che la mediazione su cui la Commissione europea è andata cercando un’intesa pone ancor più l’Italia di fronte alle sue responsabilità fiscali. E ciò emerge in modo chiaro nelle ricostruzioni della trattativa fornite dai collaboratori di Giorgetti. Il leghista si è infatti mosso su un sentiero assai stretto. Per consolidare le sue richieste di scomputare dal deficit una parte delle spese per investimenti, ha assecondato le pretese di chi, come il tedesco Christian Lindner, insisteva sullo spartito del rigore, invocando l’inserimento di ambiziosi target di riduzione del debito. “Che ci siano parametri rigidi, mi sta bene: purché, però, siano seri, cioè credibili”. 

Ora Giorgetti parrebbe essere stato accontentato. Nella bozza del nuovo accordo sul Patto viene previsto lo scorporo della spesa necessaria per la compartecipazione nazionale agli investimenti previsti dal Pnrr. Non è poco: si tratta, in teoria, di alcune decine di miliardi di qui al 2026 (difficile essere più precisi, in mancanza di dettagli definitivi). Nella pratica, in ogni caso, bisognerà capire quale sarà il tetto annuale a questi scorpori: una certa percentuale di spesa rispetto al pil (e anche qui, al momento, si naviga a vista). Senza contare, ed è un altro punto che accoglie parzialmente le richieste italiane, che anche le spese militari per il sostegno all’Ucraina potranno essere incluse nel capitolo dei “fattori rilevanti” a cui un appellarsi per giustificare il mancato rispetto dei vincoli. 

Fin qui, gli aspetti positivi. Poi però c’è l’altro corno: quello del debito. Nella proposta avanzata ad aprile dalla Commissione, si prevedeva l’applicazione automatica di una clausola di riduzione del debito dello 0,5 per cento annuo per i paesi “in procedura” con Bruxelles, come lo sarebbe l’Italia. Clausola, questa, inserita su esplicita richiesta della Germania, che addirittura chiedeva di aumentarla all’1 per cento. E’ intorno a questa oscillazione che si giocherà il negoziato di qui al 17 ottobre, in vista dell’Ecofin di  Lussemburgo.

E qui sta il problema, per l’Italia. Ché anche considerando il più ottimistico degli scenari – la clausola dello 0,5 per cento – va osservato come sia  irrealistico per il governo rispettare questo vincolo. Basta leggere la Nadef appena licenziata da Giorgetti, che prevede una riduzione del debito di 6 decimali nel prossimo triennio: dal 140,2 del 2023 al 139,6 per cento del 2026. Quasi un punto di pil in meno (0,9 per cento) rispetto all’obiettivo minimo sul triennio, che sarebbe di 1,5 punti: circa 18 miliardi. E questo, nello scenario migliore. Se invece la clausola si avvicinasse all’1 per cento, a mancare all’Italia di qui al 2026, in termini di riduzione del debito, sarebbero quasi 50 miliardi. Il tutto, peraltro, sempre che il “rallentamento del ritmo di discesa” del debito pubblico, come eufemisticamente lo si definisce nella Nadef, non si riveli  meno consistente di quanto già non sia, visto che poggia in gran parte sulla realizzazione di un piano di privatizzazioni assai ottimistico da 20 miliardi nel triennio.

Insomma, la parziale vittoria negoziale sul Patto di stabilità potrebbe tradursi in una beffa. Perché le spese straordinarie che si otterrebbe di non far computare nel deficit andrebbero comunque a ingrossare il debito: e dunque la flessibilità conquistata si risolverebbe in un aggravio dei vincoli fiscali autoimposto. Che poi, a ben vedere, è il senso profondo di una verità banale, che spesso la retorica sovranista si sforza di ignorare: non c’è nessuna ipotetica modifica delle regole europee che consentirebbe a un paese indebitatissimo, come l’Italia, di fare spesa allegra senza pagarne dazio. 

Del resto, che proprio coi vincoli fiscali tradizionali si debba fare i conti, ne è consapevole lo stesso Giorgetti, certamente ben più di alcuni colleghi di governo. Nella Nadef viene sottolineato il rispetto del tetto di crescita della spesa primaria netta (nuovo parametro guida per l’Ue) raccomandato per l’Italia, ma si sorvola un po’ sul tema del debito. E’ quello, scorporo o non scorporo, il tallone d’Achille della politica economica del governo.
 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.