Road map per l'immigrazione

L'eredità della Turco Napolitano e i punti fermi con cui incalzare il governo sui migranti. Parla Livia Turco

Marianna Rizzini

La legge n.40 del 1998 ha ancora qualcosa da dire. Ora occorre “dare priorità all’apertura di canali regolari e al ripristino dei fondi per le politiche di integrazione, stringere accordi bilaterali validi, pensare all’Africa con approccio globale, nel senso dello sviluppo e della cooperazione, e puntare sul principio di equa redistribuzione"

Il decreto migranti uscito dall’ultimo Cdm è stato accompagnato dalle parole della premier Giorgia Meloni e da molte polemiche incrociate. Livia Turco, a lungo parlamentare Pci-Pds-Ds-Pd e due volte ministro, conosce bene e non da oggi l’argomento, avendo elaborato la legge sull’immigrazione che porta il nome suo e dell’allora ministro dell’Interno (e compianto presidente emerito) Giorgio Napolitano: la legge n.40 del 1998, prima legge quadro sull’immigrazione in Italia. Dopo quindici anni di provvedimenti di diverso registro messi in cantiere dai successivi governi, quella legge ha ancora qualcosa da dire, e può permettere all’opposizione di individuare, dice Livia Turco, alcuni punti fermi su cui incalzare la maggioranza. “Quando siamo andati al governo, nel 1996”, dice l’ex ministro dem, “ci siamo trovati di fronte a un panorama di immigrazione silenziosa, rapida, attratta dalla calamita del mercato del lavoro irregolare nella pastorizia e nel settore manifatturiero nel centro nord. Un processo non scelto dalle classe dirigenti. Questo mutamento ha cambiato il paesaggio sociale, scatenando un sentimento di timore e ansia, anche alimentato da ‘imprenditori della paura’, persone che sui media soffiavano sul fuoco”. Altro elemento esterno, il collasso dell’Albania di Sali Berisha. Un insieme di fattori che portarono alla decisione di mettere mano alla materia, considerandola però, dice Livia Turco, “un fatto strutturale da affrontare in modo strutturale, anche se in quel momento si era in emergenza. Quella visione ruotava attorno a tre punti-cardine: rendere convenienti e praticabili gli ingressi regolari per lavoro, contrastare l’immigrazione clandestina e promuovere politiche di integrazione e convivenza”. Turco fu incaricata di coordinare il lavoro. L’8 ed il 9 settembre 1996 si tenne una conferenza a Torino, nel quartiere operaio e popolare di San Salvario, dove si erano formate ronde di cittadini di destra e di sinistra. All’incontro “Non più stranieri ma nuovi cittadini” parteciparono amministratori locali, volontariato, sindacati, imprenditori, esponenti dell’Islam, ricorda Turco: “Volevamo discutere l’impostazione della nuova legge, con le conclusioni di Napolitano. I cittadini vollero incontrarlo, per chiedere sicurezza. Fu allora che avemmo chiare tutte le difficoltà dell’opera: da un lato mantenere ferma l’idea di solidarietà, dall’altro tenere conto della paura”. Si pensò prima di tutto a un piano triennale di ingressi, con quote annuali stabilite per ogni tipo di lavoro, “prendendo anche atto della realtà delle cosiddette catene migratorie”. E si pensò a una figura che Turco oggi riporterebbe in campo, quella dello sponsor: “Figura individuale o collettiva – anche legata alla Chiesa o al sindacato – che si facesse garante per un certo numero di immigrati durante il periodo di tempo necessario alla ricerca di un lavoro. E i riscontri, negli anni successivi, sono stati molto positivi, per quanto riguarda l’effettivo inserimento”. Altro punto fermo: “Accordi bilaterali solidi, come quello che istituimmo con l’Albania. L’idea era di aiutare la ricostruzione attraverso parternship tematiche, gestite dai vari ministeri. Perché un accordo bilaterale sia valido bisogna agire sul sostegno allo sviluppo, sulla regolarità degli ingressi e sulla volontà dell’altro paese di riammettere il clandestino non regolare. Mi pare che negli anni successivi siano stati stipulati accordi non rispondenti a questa visione. E per quanto riguarda il problema del trattenimento, nel caso in cui fosse impossibile accertare le generalità di uno straniero, tema doloroso per una cultura di sinistra, si era deciso che nei centri di permanenza temporanea il fermo fosse di trenta giorni al massimo. L’idea era di garantire la sicurezza, ma anche il rispetto della persona”. Fondamentali erano sembrati, e Turco lo ribadisce oggi, “il fondo per le politiche di integrazione per finanziare i progetti dei Comuni”, nell’ottica dell’accoglienza diffusa, e le norme che garantivano “diritti coerenti con la dignità delle persone come il diritto alla salute, alla tutela della maternità, all’istruzione dei bambini, diritti che devono valere anche per le persone irregolari senza permesso di soggiorno. Se oggi gli immigrati possono avvalersi, nonostante le disumane politiche della destra, di una gamma di diritti, questo lo si deve alla legge 40/98”. Che fare ora? Su che cosa incalzare il governo? “Dare assoluta priorità all’apertura di canali regolari per gli ingressi e al ripristino dei fondi per le politiche di integrazione, stringere accordi bilaterali validi, pensare all’Africa con approccio globale, nel senso dello sviluppo e della cooperazione, e puntare sul principio di equa redistribuzione. Meloni non sembra dello stesso avviso, magari per non spiacere all’amico Orban, ma guardiamo alla Germania: con gli immigrati siriani – e ne sono stati accolti tanti – ha velocemente raggiunto l’obiettivo di integrare”. 
 


 

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.