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L'editoriale del direttore

I dieci punti su cui Meloni si giocherà la sua reputazione (e quella dell'Italia)

Claudio Cerasa

Dal pil alla giustizia, dalle tasse alla demografia. Il secondo anno di governo costringerà la premier a doversi confrontare non solo con le aspettative ma anche con i risultati. Ecco i test per non farsi inghiottire dall’éra della mediocrità

Un anno dopo, più che tempo di bilanci, è tempo di progetti. E la domanda vera cui occorre rispondere con urgenza per provare a capire cosa ne sarà di questo governo, un anno dopo le elezioni del 25 settembre 2022, è legata a una questione importante: su cosa si misurerà, nei prossimi mesi, l’eventuale successo del governo Meloni? Il primo anno, tutto sommato, è filato via liscio a colpi di formidabili negazioni. Meloni non ha governato come se fosse Salvini, non ha fatto rivivere le emozioni del governo gialloverde, non ha riportato le lancette dell’Italia al 2012, non ha commesso errori sul tema dell’antifascismo, non ha fatto suo in politica estera il modello Trump, non è stata una copia di Le Pen sull’immigrazione, non si è mossa come una Orbán a Bruxelles e non ha fatto rimpiangere Draghi sul tema dell’attenzione ai conti pubblici.

  

Si poteva fare meglio, ovvio, molto meglio, ma si poteva fare anche peggio, molto peggio. E dopo un anno, in fondo, tanto basta per essere sollevati. Il secondo anno di governo Meloni però costringerà il presidente del Consiglio a doversi confrontare non solo con le aspettative ma anche con i risultati. E ci sono almeno dieci obiettivi “strateggici”, come direbbe Meloni, che vale la pena appuntarsi sul taccuino, per comprendere quanto l’azione di governo sarà all’altezza delle sfide che si presenteranno di fronte all’Italia. La sfida numero uno, neanche a dirlo, riguarda il Pnrr. Finora, il governo è riuscito a fare il minimo sindacale, ovvero non perdere la possibilità di avere entro la fine dell’anno tutti i soldi previsti dal Pnrr per il 2023. Ma la scommessa vera da vincere nei prossimi mesi sarà quella di saper spendere quei soldi sfruttando la grande opportunità concessa dal piano europeo: utilizzare la leva del Pnrr per sburocratizzare l’Italia e velocizzare i processi decisionali del paese. Vasto programma, si sarebbe detto un tempo. Ma un programma non impossibile, a condizione che il Pnrr venga trasformato non in un fardello da sopportare ma in un’opportunità da sfruttare. Si può essere ottimisti su questo? Un dato offerto dall’Istat fa tremare i polsi: nonostante i miliardi europei utilizzabili per gli investimenti – investimenti che secondo le stime dovrebbero far crescere il pil di 2-3 punti l’anno – gli investimenti fissi lordi sono calati dell’1,8 per cento nel secondo trimestre del 2023. La seconda sfida, la più importante forse, collegata alla prima, riguarda ovviamente la crescita.

Il biennio che ha preceduto la stagione del melonismo è stato caratterizzato da una crescita record (dovuta in buona parte al rimbalzo successivo al crollo del 2020 e agli effetti generati dal Superbonus: moltissimo debito, ma anche un po’ di più). E la possibilità di avere una crescita più sostenuta rispetto al passato è stata la chiave con cui l’Italia ha potuto rafforzare la sua immagine sui mercati. Grazie a un ragionamento semplice da capire: un paese molto indebitato che cresce è in grado di generare fiducia e di rendere il suo debito sostenibile. A fine anno è possibile che, nonostante il calo del pil rispetto alle attese, l’Italia riesca ad avere una crescita ancora superiore rispetto a quella dell’Eurozona (+0,9 per cento contro il +0,8 per cento dell’Eurozona secondo le ultime stime della Commissione).

 

Ma Meloni sa che sul pil si gioca la partita più importante sul terreno della credibilità. Riuscirà a trovare una via pragmatica per rendere l’Italia un paese attrattivo? Riuscirà a non riportare l’Italia ai livelli di crescita da zero virgola? Riuscirà a non apparire come la premier che ha tragicamente affossato la rinnovata stagione dell’affidabilità dell’Italia? Accanto a questi temi, ve n’è un altro cruciale che avrà un peso reale sulla percezione dell’affidabilità dell’Italia: la gestione delle partite industriali. Tre partite su tutte, che coincidono con tre dossier lasciati aperti anche dal precedente governo: Ita, Tim, Ilva. Obiettivo delle prime due partite: mettere in sicurezza le due società, assicurandosi che il deal con Lufthansa possa concretizzarsi (la strada è ancora lunga) e assicurandosi che la vendita della rete di Tim a Kkr permetta a Tim di respirare (il deal c’è, l’accordo per compensare Vivendi, primo azionista di Tim, per la vendita della rete no). Obiettivo di Ilva: evitare che il combinato disposto tra magistratura fanatica, ambientalismo ideologico, governo in confusione, management allo sbando porti alla non più impossibile chiusura di Ilva (sarebbe un paradosso drammatico avere un paese che mentre afferma di essere deciso a ridurre le sue dipendenze sulle materie prime dai mercati stranieri rinuncia a una delle fabbriche di acciaio più importanti d’Europa). Il punto successivo da tenere a mente, il numero sei, che gravita sempre attorno ai temi economici, riguarda la capacità di Meloni di saper mostrare coraggio su un tema che in teoria le dovrebbe stare a cuore: le tasse. In campagna elettorale, il centrodestra ha conquistato il consenso degli elettori anche mettendo al centro del suo messaggio politico la riduzione della pressione fiscale.

 

E per quanto gli spazi delle prossime manovre saranno molto stretti, una via responsabile alla diminuzione delle tasse esiste: tagliare la spesa pubblica improduttiva in modo robusto e convincersi che i pochi margini di bilancio che esistono meritano di essere utilizzati non per una modesta mancia sul cuneo fiscale ma per un robusto intervento sull’Irpef. In questi mesi, Meloni ha capito che essere contemporaneamente all’altezza delle aspettative degli elettori, delle ambizioni del governo e dell’agenda dei doveri non è semplice. Ma, per ovviare al problema, ci sono alcuni terreni che si potrebbero presidiare. Da un lato vi è il dossier sull’immigrazione (punto numero sette). Dall’altro vi è il dossier delle sfide demografiche (punto numero otto). Sul primo punto, per ottenere risultati concreti, Meloni ha solo due strade: lavorare per cambiare il trattato di Dublino (come ha giustamente invitato a fare ieri, con pragmatismo, il capo dello stato) e fare con la Tunisia quello che la Germania è riuscita a fare con la Turchia attraverso l’Europa. Ovverosia: soldi a palate erogati per rendere la gestione dei flussi in partenza non utopia ed evitare che la campagna elettorale europea diventi una corsa a negare solidarietà all’Italia. Il dossier ulteriore, che è quello demografico, è uno dei veri punti deboli del governo. E non si capisce perché Meloni non abbia scelto di far sua la proposta consegnata dal ministro Giorgetti a questo giornale: niente tasse a chi fa due figli. Proposta da circostanziare, da perfezionare, da affinare (quanti figli? Quali tasse?), ma proposta coraggiosa, da non abbandonare.

Il partito del pil, ovviamente, osserva con attenzione e curiosità il destino delle riforme sulla giustizia, chez Carlo Nordio, ed è evidente che anche su questo punto verrà misurato sia il coraggio del governo sia la capacità di Meloni di utilizzare il garantismo non come un semplice gargarismo, come invece appare oggi: utile cioè a ripulire la propria bocca dalle tossine populiste. L’elenco potrebbe continuare a lungo e potrebbe comprendere anche altri terreni ambiziosi (al punto numero nove potremmo mettere le varie ed eventuali) come quello legato alle riforme istituzionali (il fatto che il dossier sia gestito dal ministro Casellati è purtroppo una garanzia di insuccesso sicuro), come quello legato alla lotta contro l’evasione fiscale (riuscirà questo governo a resistere alla tentazione di indebolire l’Agenzia delle entrate?), come quello legato alla promozione della concorrenza (l’impotenza sui taxi è già un manifesto politico), come quello legato alla capacità di scommettere sull’innovazione (la fuga dall’Italia di Intel, operazione da 4,5 miliardi di investimento, non promette nulla di buono), come quello legato alla capacità di intervenire sulla bassa produttività (una delle parole che Meloni ha scelto con cura di non utilizzare mai durante il suo primo anno di governo).

 

Ma al fondo l’elemento vero su cui verrà giudicata Meloni nei prossimi mesi – oltre ovviamente alla sua abilità nel tenere salda la direzione dell’Italia sul terreno della difesa di una democrazia aggredita come quella Ucraina – riguarda la sua capacità di evitare con attenzione la scorciatoia complottista, vittimista per governare i problemi complessi, mettendo cioè al centro della sua agenda non le solite rivendicazioni demagogiche rivolte all’Europa ma la consapevolezza che per il futuro del paese, almeno dal punto di vista economico, ciò che l’Italia può fare per se stessa conta infinitamente più di quel che l’Europa può fare per l’Italia. Più che tempo di bilanci, è tempo di progetti. E per capire se nei prossimi dodici mesi Meloni riuscirà a salvarsi dalla mediocrità forse vale la pena partire da qui. Dieci punti, dieci idee, dieci sogni per evitare che la stagione meloniana, con le sue great expectations, venga ricordata come quella delle occasioni perse.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.