L'Ue smonta il mezzo sabotaggio italiano sul Patto di stabilità

Valerio Valentini

La rete diplomatica della spagnola Calviño, che cita Draghi: "serve un accordo whatever it takes". Con lei, Olanda, Francia e la Commissione. L'ipotesi di prolungare la durata dei piani nazionali per il rientro dal debito. Le richieste italiane sullo scorporo degli investimenti e l'incognita del deficit in vista dell'Ecofin. Giorgetti cammina sul filo

Sarà stata magari una citazione involontaria, ma la coincidenza è stata comunque notata. Difficile, del resto, che nei corridoi di Bruxelles quelle tre parole suonino senza rumore. Ed è quello che Nadia Calviño ha detto:  un accordo sul nuovo Patto di stabilità va trovato “whatever it takes”. E non è banale che lo dica, la vicepremier spagnola. Perché, da ministra delle Finanze  in carica, sarà lei a presiedere l’Ecofin che, per discutere anche e soprattutto della riforma delle regole fiscali, s’apre oggi a Santiago de Compostela. E  forse ispirata dal luogo, nei colloqui preparatori, Calviño va ripetendo che un accordo bisogno trovarlo “en medio camino”, cioè a metà strada. Ed è, questo, un segnale lanciato tanto a Berlino quanto a Roma. Dove però la determinazione di Calviño, che è poi la stessa della Commissione, sta a ribadire anche un altro concetto:  l’ipotesi di un altro anno di sospensione del Patto, caldeggiata da Giorgia Meloni, non è contemplata.

Il governo italiano puntava proprio a quello: un patriottico nulla di fatto. E il mandato che Giancarlo Giorgetti ha ricevuto, in vista dell’Ecofin, è proprio questo: tenere volutamente pretenziose le richieste sullo scorporo delle spese per investimenti – almeno quelli previsti dal Pnrr, dunque al massimo  di qui al 2026 – così da complicare, forse precludere, qualsiasi ipotesi d’intesa, e sperare d’incassare a quel punto la proroga della clausola di salvaguardia anche per il 2024. Che poi significherebbe:  fare ancora deficit senza troppo badare ai vincoli di Bruxelles.

Ma non sono questi i progetti della Spagna, che tiene la presidenza di turno del Consiglio dell’Ue. E nei colloqui avuti coi suoi omologhi, e coi commissari delegati alla revisione del patto – Paolo Gentiloni e Valdis Dombrovskis – si è convenuto di delineare un percorso stringente, con l’obiettivo di arrivare a formulare una proposta definitiva entro l’inizio di ottobre. “Perché il costo della nostra inazione sarebbe terribile”, ripete Calviño. Che proprio per scongiurare il rischio che a Santiago il confronto degeneri in trambusto, e dunque per eludere le tattiche ostruzionistiche, ha diramato già nelle scorse settimane una sorta di questionario con quattro quesiti sui principali argomenti del contendere. E non c’è, è stato subito notato dai diplomatici italiani, alcun riferimento allo scorporo degli investimenti. 

Ciò che si ipotizza, nel progetto di mediazione di Calviño, è semmai un consolidamento di uno degli aspetti  fondanti della proposta della Commissione. E cioè il fatto che i paesi che s’impegnano con Bruxelles a fare riforme e investimenti virtuosi possano avere più tempo per conseguire risultati significativi e duraturi nella riduzione del debito pubblico. Nella proposta di Gentiloni e Dombrosvkis questi percorsi di rientro – paragonabili a dei piccoli Pnrr – potranno durare da tre a sette anni. Calviño non esclude – come segnale di apertura nei confronti dei paesi più indebitati – di prolungare ulteriormente la scadenza. 

Senza che però questo implichi – ed è un altro punto a favore del fronte non rigorista – l’accoglimento della richiesta tedesca  di rendere obbligatorio il taglio del debito di un punto percentuale all’anno per i paesi che accettano la procedura. “Sarebbe una misura pro ciclica, e le misure pro cicliche non sono utili”, ha spiegato la ministra delle Finanze olandese, Sigrid Kaag, in un recente incontro a Madrid proprio con Calviño. Un colloquio non casuale, quello di inizio giugno, che è servito a rinsaldare l’intesa tra Spagna e Paesi Bassi, dalla cui convergenza, precipitata in un dossier congiunto nella primavera del 2022, era poi scaturita la proposta della Commissione.

Ed è stato in quell’occasione che le due ministre hanno spiegato l’architettura fondamentale dell’accordo che intendono perseguire: un “triangolo ai cui vertici ci sono la riduzione del debito, le riforme e gli investimenti”. Basterà per convincere gli opposti dubbiosi? Chissà. Di certo c’è che Calviño, oltre che di quello di Kaag, si considera forte anche del sostegno del francese Bruno Le Maire, che per primo, già nell’aprile scorso, aveva criticato come “non realistiche” le insistenze rigoriste del tedesco Christian Lindner. E poi, ovviamente, c’è la Commissione. Ursula von der Leyen, nel suo discorso sullo stato dell’Unione, ha significativamente aggirato il tema. Reticenza che è stata vista come un favore  a Olaf Scholz, che si vede in affanno nella trattativa, ma che al tempo stesso potrebbe testimoniare di una volontà di non compromettere un accordo che, si vocifera a Bruxelles, è “alla portata”. 

Spetterebbe all’Italia, a questo punto, il ruolo di sabotatrice? Difficile da dire, se non altro perché dal Mef non è stato elaborato alcun documento, ufficiale o ufficioso, che indichi nero su bianco la posizione negoziale con cui Giorgetti si siederà al tavolo dell’Ecofin. “Le richieste italiane sono note a tutti”, spiegano da Via XX Settembre, ricordando che un non-paper dedicato a questi temi venne fatto circolare dal governo Meloni già in primavera (anche se, va detto, il tema del papello in quel caso era, più in generale, il rilancio dell’industria europea in risposta all’Ira americana, e al Patto di stabilità, nello specifico, non vi si faceva che un rapido accenno). 

Come che sia, le condizioni non sembrano suggerire azzardi, a Giorgetti. E non solo perché l’Ecofin sarà l’ennesima occasione per rimarcare il ritardo dell’Italia nella ratifica del Mes, il cui presidente sarà presente al vertice. Ma anche perché sarà quella l’occasione in cui il ministro dell’Economia inizierà a delineare ai suoi omologhi i contorni della Nadef che verrà: e siccome il deficit del 2023 sarà “inevitabilmente più alto”, e in misura tutt’altro che irrilevante, rispetto al 4,5 per cento fissato nel Def di aprile, e siccome anche per la legge di Bilancio 2024 bisognerà ottenere maggiori margini di spesa, e farlo senza indispettire i colleghi, non ci sarà granché motivo di essere intrepidi, sul tema del debito.
 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.