Com'è nata l'invettiva contro Gentiloni. La nuova linea di Fazzolari a Palazzo Chigi

Valerio Valentini

Le confidenze di Fitto ai colleghi ministri: "Ora Von der Leyen ha bisogno di noi". Di lì, la decisione del sottosegretario alla Presidenza: attaccare Bruxelles. Le mosse di Salvini, i timori di FdI per Pontida. Meloni non vuole lasciare all'alleato il monopolio del sovranismo Di qui il rigurgito antieuropeista

E’ la baldanza che soverchia la malizia? Chissà. Di certo c’è che a Palazzo Chigi qualcuno deve essersi lasciato prendere la mano. E nel sentire Raffaele Fitto che dispensava rassicurazioni, ma con juicio, sul fatto che “a Bruxelles avranno bisogno di Roma nei prossimi mesi”, deve aver pensato che bisognasse forzare il ragionamento: “Se è così, fuoco alle polveri”. L’invettiva contro la Commissione passa da qui. E a benedirla, Giovanbattista Fazzolari.

La coincidenza è d’altronde troppo evidente per non essere notata: ché proprio in corrispondenza con l’inclusione della comunicazione di Palazzo Chigi nelle già ampie deleghe del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, sempre più ispiratore del pensiero di Giorgia Meloni, ha preso consistenza l’invettiva contro Paolo Gentiloni. Non che la premier non le condivida, e come lei un po’ tutto lo stato maggiore di FdI, quelle tesi: ma se le chiacchiere riservate sono diventate dichiarazioni ufficiali, se alla polemica con Bruxelles e col “commissario del Pd” si è voluto dare visibilità perfino dalla vetrina del G20, è perché si è ritenuto opportuno uscire allo scoperto. L’attacco, sia pure sguaiato, come miglior forma di difesa. “Perché se pensano di prepararci imboscate in Europa, allora tanto vale che gli roviniamo il giocattolo, visto che noi siamo l’Italia e da noi non possono prescindere”. Questo è il senso delle meditazioni attribuite a Fazzolari dai suoi confidenti di FdI. 

Il che è una specie di adulterazione, o forse, chissà?, di sublimazione, di una convinzione che settimane fa Fitto aveva maturato. E cioè che sullo sblocco della terza rata del Pnrr, come pure sulle richieste di modifica degli obiettivi previsti per dicembre, ci fosse ben poco da temere. Perché il dossier era stato allestito con zelo, certo, nell’ottica del ministro per gli Affari europei. Ma pure, e forse soprattutto, perché la presidente di Ursula von der Leyen aveva l’interesse di condurre un negoziato sereno con Roma, insomma di non indispettire in alcun modo un governo e una maggioranza da cui, tra qualche mese, dipenderà almeno in parte il destino delle sue ambizioni di vedersi confermata alla guida della Commissione. Come spiegare altrimenti, sennò, che proprio presso di lei trovassero ascolto certe rimostranze di Palazzo Chigi sull’eccessiva pignoleria dei funzionari di Bruxelles che invece altrove veniva liquidate con fastidio?

Solo che poi la convinzione di Fitto ha dato sostanza alle rivendicazioni che altri hanno declinato in modo assai più rude. E si spiega così, del resto, anche la scelta dello staff di Meloni di assecondare questo rigurgito di antieuropeismo, che riaffiora come un’esantema a ogni avvio di campagna elettorale. Perché una volta che ad aprire il fuoco su Gentiloni era arrivato Matteo Salvini, come potrebbe Meloni sottrarsi al gioco, rischiare di apparire tiepida laddove il leghista si mostra impavido? E forse Salvini lo sa che quel nervo è scoperto. E domenica, dal prato di Pontida, insieme a Marin Le Pen, c’è da scommettere che continuerà a batterci. 
 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.