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l'editoriale del direttore

Gli opposti tabù sui salari e quel numero 9 sbagliato e rischioso

Claudio Cerasa

Parlare seriamente di retribuzioni? Iniziamo a dire che le aziende devono alzarle; ma anche che gli stipendi peggiori sono quelli più alti. Uscire dalle opposte demagogie e non sprecare un’occasione: la differenza tra avere una buona riforma o un disastro passa da qui

Oltre la politica c’è la creatività. La centralità assunta dalla discussione sul salario minimo, a prescindere da quello che si possa pensare nel merito di questo provvedimento, rappresenta un successo dell’opposizione, che mai come in questa occasione è riuscita a trovare un compromesso politico per presentarsi compatta di fronte alla maggioranza assumendo la postura di chi ora comprensibilmente dice: cara Meloni, noi siamo interessati al tema dei salari, e tu? Oggi a Palazzo Chigi le opposizioni, tranne Italia viva, saranno ricevute dal primo ministro. E il fatto che in Italia si discuta con così tanta insistenza di salari è una circostanza apprezzabile. Meno apprezzabile, invece, è che quando si discuta di salari si scelga in molti casi di adottare una postura demagogica, tarata molto sugli slogan e poco sui dati di realtà. Proviamo a fare un po’ di ordine.

Il primo elemento demagogico, in questa storia, coincide con un tema non politico che anche la politica prima o poi dovrebbe prendere di petto. La questione è semplice: è tempo di chiedere alle imprese di migliorare le condizioni di vita dei propri lavoratori alzando i salari. E di farlo a prescindere dalle concessioni ottenute dai sindacati nelle trattative con i rappresentanti della categoria degli imprenditori (e a prescindere dalle pur giuste battaglie sul cuneo fiscale). Prendendo atto del fatto che (a) a fronte di un’inflazione europea che nel 2022 ha toccato il 9,2 per cento le retribuzioni italiane sono aumentate appena del 2,9 per cento contro un più 4,4 per cento del resto d’Europa e che (b) a fronte di una manodopera che manca in Italia (pari a circa 400 mila unità) non si può pensare solo di rispondere intervenendo sul Reddito di cittadinanza o sul decreto flussi ma occorre convincersi del fatto che in Italia non si trovano lavoratori anche perché i salari non vengono ritenuti idonei dagli stessi potenziali lavoratori. Il tema delle imprese incapaci di alzare i salari come sarebbe lecito aspettarsi è oggettivamente un tabù.

Così come è un tabù, quando si parla di salari, la messa a fuoco di un altro tema, più politicamente scorretto ma non meno politicamente rilevante: gli stipendi in Italia sono un problema, lo sappiamo, ma i numeri ci dicono che i salari meno competitivi non sono quelli più bassi: sono quelli più alti. E’ un fatto che la retribuzione oraria mediana in Italia è pari a 12,6 euro lordi (significa che metà dei lavoratori guadagna meno di quella cifra e metà ne guadagna di più) e che questo dato, più basso del valore europeo (13,2 euro lordi), proietti l’Italia all’undicesimo posto nell’Unione europea. Ma è anche un fatto, poco ricordato dal dibattito pubblico, che in Italia rispetto a coloro che sono istruiti, a parità di livello, le retribuzioni “basse” sono più alte della media europea, mentre quelle “alte” sono più basse.

Un dato? Eccolo: la differenza di salario tra i livelli d’istruzione più bassi (primaria e/o secondaria inferiore) e più alti (terziaria e superiore) in Italia si colloca tra i 27.806 e i 44.104 euro annui. In Germania tra i 27.005 e i 68.144. In Francia tra 28.115 e 47.696 euro. Nell’area euro tra 25.518 e 51.200. E’ un tabù parlare del fatto che l’Italia ha un problema di salari alti troppo bassi – e avere salari alti molto bassi non è certo un incentivo per creare ricchezza, attrarre cervelli, rendere l’Italia maggiormente attrattiva. Ma è anche un tabù ricordare che la colpa dei salari che non sono alti come dovrebbero è legata prevalentemente alla bassa produttività del paese (dove la produttività è alta i salari di solito sono un po’ più alti, dove la produttività è bassa i salari di solito sono un po’ più bassi). Ed è anche un tabù ricordare, come ha fatto qualche giorno fa Lorenzo Bini Smaghi sul Corriere della Sera, che i salari sono più alti nelle grandi società, nelle grandi multinazionali che il ministro Adolfo Urso, detto Urss, vuole mettere in fuga, e che solo facendo crescere di dimensioni le aziende italiane si potranno avere aziende capaci di rispettare standard internazionali anche a livello di salari (in Italia la dimensione media di impresa è pari a 4 addetti, la media europea è 5,5 addetti, in Germania è 12 addetti). 

 

E’ un tabù tutto questo. Ed è un tabù anche ricordare che in Italia gli stipendi migliorano laddove i sindacati smettono di agire dogmaticamente, decidendo di seguire il modello della contrattazione decentrata e provando dunque quando possibile a legare l’aumento della retribuzione anche a un aumento della produttività. Per ragionare sui salari senza tabù, senza slogan, senza propaganda, prima ancora di arrivare a toccare il tema del salario minimo, occorrerebbe partire da qui. Occorrerebbe per esempio dire che se la politica volesse davvero trovare un’intesa per migliorare le retribuzioni, più che ragionare sul salario minimo, dovrebbe ragionare su come abbattere il cuneo fiscale non con misure spot, temporanee ed estemporanee, come è oggi, ma con misure strutturali, capaci cioè di incidere in modo non passeggero sulla riduzione degli oneri contributivi a carico dei lavoratori (meno spese folli per far diminuire gli anni necessari per andare in pensione, più spese per rendere più dignitoso il salario di chi in pensione chissà quando ci andrà). E per farlo, come ha scritto più volte Oscar Giannino su queste pagine, occorrerebbe impegnarsi, tutti, a partire dalla destra, in una lotta contro i contratti pirata fissando parametri di rappresentanza sindacale per firmare i contratti e avendo il coraggio di affrontare la reazione dei settori che quei contratti andrebbero a firmare (commercio, ristorazione, turismo, agricoltura, logistica ed edilizia, per esempio). Occorrerebbe fare tutto questo.

 

Ma occorrerebbe anche avere un approccio sul tema dei salari, e del salario minimo, diverso da quello attuale. E qui arriviamo all’incontro di oggi. Con qualche paletto. E’ difficile, se ci si pensa bene, non dare ragione a chi in questi giorni ha evidenziato i tratti populistici della proposta delle opposizioni. E il populismo, sul tema, è tutto legato alla soglia dei nove euro. Chi lo ha deciso? Come ci si è arrivati? Chi ha scelto di fissare questo numero? La questione della soglia, come ha ricordato Luciano Capone su queste pagine, non è un dettaglio. Passa da qui la differenza tra avere una buona riforma o un disastro. Una soglia troppo bassa sarebbe poco utile, una soglia troppo elevata sarebbe dannosa perché spingerebbe molti lavoratori verso la disoccupazione o il lavoro irregolare. E il confronto internazionale ci dice che il livello proposto dalle opposizioni al momento è troppo alto (nei paesi Ocse il livello del salario minimo è compreso in una fascia tra il 40 e il 60 per cento del salario mediano. I 9 euro l’ora per l’Italia corrispondono al 75 per cento del salario mediano. Trattasi del livello più alto in Europa, che può avere effetti devastanti soprattutto nel Mezzogiorno, dove i 9 euro l’ora sono pari al 90 per cento del salario mediano).

 

Dunque, che fare? Per affrontare in modo non populistico il tema una via d’uscita ci sarebbe ed è la strada imboccata dalla Germania: affidare a una commissione tecnica indipendente in linea con le indicazioni delle direttive europee l’individuazione della soglia, come hanno fatto in Germania e Regno Unito, e iniziare un’attuazione sperimentale nei settori certificati a salari più bassi per verificare non si determino fughe verso il nero. In questo caso, entrambi le parti sarebbero costrette a fare un passo indietro. Meloni perché direbbe di sì al salario minimo – e il fatto che la premier abbia deciso di ascoltare le opposizioni sul tema, dopo che il ministro Tajani ha bollato la misura come soviettista e dopo che il ministro Musumeci l’ha liquidata come “assistenzialista” è un segnale interessante, costruttivo – e le opposizioni perché rinunciano al numero simbolico di 9 euro, per farne due avanti: sì a una riforma, imitando i paesi dove funziona. Nella consapevolezza che non risolverà tutti i problemi, ma può migliorare un po’ le condizioni di chi si trova al margine. Discutere di salario minimo non è sufficiente per intervenire in modo non propagandistico sul tema dei salari. Ma se proprio occorre parlarne, trasformare questo percorso in un’occasione per mettere a nudo i tabù dell’Italia sul tema dei salari può essere un modo utile per mettere da parte l’ipocrisia, inquadrare i vizi e ragionare davvero sui salari provando una volta per tutte a trattare gli elettori come meritano di essere trattati: semplicemente da adulti. 

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.