(foto Ansa)

enigma parigi

Meloni teme le fughe in avanti di Macron nel Niger. Tajani fa prove di dialogo coi golpisti

Valerio Valentini

La premier e il ministro degli Esteri guardano con cautela alle mosse francesi per gestire la crisi nigerina. Il viceministro Cirielli: "La certezza è che non può esserci un intervento dell'occidente in quell'area"

E’ un po’ come nella scena iniziale di “Match Point”: la rete da tennis in primo piano, la palla che colpisce il nastro e resta sospesa a mezz’aria. Fermo immagine. Dissolvenza al nero. E poi toccherà aspettare due ore di film per capire dove ricadrà, e chi avrà segnato il punto decisivo. Eccola, dunque, la cautela esasperata di Antonio Tajani: che è la cautela di chi, di fronte all’incertezza degli eventi in Niger, preferisce scansare qualsiasi giudizio definitivo. Almeno fino a domani, quando la manifestazione a favore del deposto presidente Bazoum davanti all’ambasciata francese, a Niamey, dirà se davvero ha senso sperare ancora nell’opzione che in verità tra la Farnesina e la Difesa considerano assai velleitaria: quella, cioè, del ripristino dell’ordine messo a soqquadro dai golpisti.  E forse aiuterà a comprendere meglio anche la fondatezza dei timori italiani rispetto a possibili fughe in avanti da parte di Emmanuel Macron.

 

Non che sia un mistero, d’altronde. Guido Crosetto le sue perplessità sulla condotta di Parigi le ha espresse, sia pure con garbo, in un’intervista tre giorni fa: “Rischiamo di fare i cowboy nel saloon e in quella parte dell’Africa non possiamo permetterci altri terremoti”, ha detto il ministro della Difesa, aggiungendo che “un intervento fatto da europei bianchi in quell’area rischierebbe di avere effetti deflagranti”. Riferimento non proprio criptico ai francesi, evidentemente. Che in realtà, poi, il timore condiviso tra i comandi dell’esercito italiano non sia esattamente quello per “un intervento da europei bianchi”, questo Crosetto non poteva dirlo. E però lo scenario che allerta i nostri diplomatici è in effetti più complesso di così: e consiste, cioè, nell’appoggio da parte di Macron a un intervento militare coordinato dall’Ecowas. Sarebbe dunque la Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale, guidata dalla Nigeria, a mettere gli scarponi sul terreno: col supporto logistico – reparti d’intelligence e un drappello di forze speciali – di Parigi. Concreta, come prospettiva? Difficile da dire.

A Palazzo Baracchini suggeriscono prudenza nelle interpretazioni. Anche perché  analisti tenuti in buona considerazione dalla nostra intelligence fanno notare come una simile operazione sarebbe difficilmente sostenibile non solo da Macron di fronte alla sua opinione pubblica,  ma anche dalla stessa Ecowas, che finirebbe così per legittimare le critiche dei suoi avversari storici nell’area del Sahel, quelle secondo cui sarebbe solo uno strumento della persistente politica coloniale francese. E non a caso è sulla base di questa retorica che nei giorni scorsi i golpisti al seguito del generale Tiani hanno lanciato il loro ultimatum: “Un intervento dell’Ecowas segnerebbe l’inizio del conflitto”. Ed è in questa strettoia che devono stare, par di capire, i tormenti di Macron. Il quale, nel liquidare decenni di Françafrique, nei mesi passati ha puntato proprio sul Niger come estremo presidio nel Sahel. Ne parlò anche con Mario Draghi, in una cena parigina del febbraio del 2022, dove si convenne di ritirare i militari impegnati con la missione Takuba nel Mali ormai caduto nell’orbita della Wagner proprio a Niamey. Cedere ancora, adesso, sarebbe uno smacco. Ma “quel che è certo è che non può esserci un intervento occidentale in quell’area”, ci dice il meloniano Edmondo Cirielli, viceministro degli Esteri, ribadendo come “la consapevolezza che noi occidentali dobbiamo restarne fuori è condivisa anche dai nostri alleati europei e americani. Dopodiché, certo, la nostra è una diplomazia tradizionalmente non imperialista, e questo ci consente di avere talvolta maggiori spazi di dialogo”. Dialoghi con chi, però?  “Noi non possiamo che rinnovare il nostro sostegno a Bazoum, visto che è il presidente democraticamente eletto, il che non è certo un dettaglio”, prosegue Cirielli, confermando però che al momento nessuno sa cosa accadrà.

 

E non sapendolo, dunque, si sta di vedetta. Il che significa, però, predisporsi anche a gestire un esito della faccenda che non è quello più auspicabile. Il ritorno in auge di Bazoum viene, non a caso, considerato assai improbabile dai nostri diplomatici. E non è un caso che alla Farnesina ci si predisponga a intessere un dialogo anche con lo stesso Tiani, evitando di considerarlo a prescindere come un soggetto ostile. Così vanno lette anche le dichiarazioni di quel Tajani che ha fatto notare come proprio una pattuglia di golpisti abbia scortato il contingente di civili italiani fino all’aeroporto di Niamey, e dunque in salvo. Cortesia obbligata, è evidente, anche per scongiurare il rischio di ritorsioni nei confronti dei nostri connazionali – militari compresi – ancora sul posto. E però la distanza dei toni utilizzati dal ministro degli Esteri rispetto a quelli della sua omologa francese, sul tema sono evidenti. Questione di “diplomazia non imperialista”, forse. Ma forse c’è pure che anche la cortesia, in questi casi, va dosata con prudenza. Lo dimostrò, mesi fa, anche il caso di Alessia Piperno: quando le autorità iraniane rilasciarono la travel blogger romana dopo 45 giorni di detenzione, i ringraziamenti del nostro governo nei confronti di Teheran furono un po’ troppo sentiti. Di lì la necessità di ridimensionarli, per non indispettire Washington. Di lì, però, l’indispettimento di Teheran. Ci sta dunque che ora si stia all’erta, alla Farnesina. Nell’attesa di capire da che parte del campo cadrà la palla. 

  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.