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Prima repubblica

A ottant'anni dalla nascita della Dc, tra statalismo e popolarismo

Ortensio Zecchino

Dal codice di Camaldoli all'opuscolo di De Gasperi. Il percorso politico e ideologico del partito di massa che ha governato l'Italia per cinquant'anni

Luglio è mese fatidico per la storia della Democrazia cristiana. Nel luglio di ottant’anni fa prese corpo il processo di fondazione e nel luglio di trent’anni fa ne fu decretata la dissoluzione. Il luglio del 1943, mese cruciale nella storia d’Italia per la caduta del fascismo, è infatti anche il mese in cui furono fissate le basi ideologico-programmatiche della Democrazia cristiana, il partito destinato a governare l’Italia per i successivi cinquant’anni. In quel mese videro  la luce due importanti documenti che ne definirono il primo profilo identitario: il cosiddetto Codice di Camaldoli e le Idee ricostruttive della Democrazia cristiana.

Nel settembre dell’anno precedente, nell’abitazione milanese dell’industriale Enrico Falck, in clandestinità, si erano incontrati Alcide De Gasperi, Piero Malvestiti, Achille Grandi, Stefano Jacini, Giovanni Gronchi, Giuseppe Brusasca, con l’idea di dar vita a un partito. Le sorti della guerra, e quindi del fascismo, allora non erano ancora segnate. Solo di lì a qualche settimana, infatti, si sarebbe profilata la prima pesante sconfitta delle forze dell’Asse nella battaglia di El Alamein, seguita, nel febbraio successivo, dalla sconfitta nella battaglia di Stalingrado.  In quel clima d’incertezza dunque quel manipolo di audaci pensò di avviare un percorso clandestino per dar vita a un organismo politico, nella speranza di contribuire a realizzare le condizioni per la nascita di un mondo nuovo e migliore. 

 Nel luglio del ’43 lo scenario della guerra era intanto notevolmente mutato, gli angloamericani erano sbarcati in Sicilia per piegare l’Italia e il regime fascista era ormai alle corde. Il 18 luglio a Camaldoli, una località in provincia di Arezzo, si riunì un gruppo di intellettuali guidati da Sergio Paronetto, Vittorino Veronese, Pasquale Saraceno ed Ezio Vanoni per preparare una piattaforma programmatica, in vista della sperata rinascita democratica. L’incontro avrebbe dovuto durare fino al 24, ma il precipitare degli eventi – il 19 Roma fu bombardata – costrinse a una conclusione anticipata. Fu comunque varato un documento con 76 enunciati sintetici. Le vicende belliche consentirono solo nell’aprile del 1945 la pubblicazione di un testo, arricchito dei successivi contributi di giovani destinati a importanti ruoli nella politica italiana: Giulio Andreotti, Mario Ferrari Aggradi, Guido Gonella, Giorgio La Pira, Giuseppe Medici, Aldo Moro. Il senso politico-economico del Codice di Camaldoli può essere sintetizzato nell’affermazione dell’imprescindibile ruolo dello stato per assicurare elementi di giustizia sociale nell’economia capitalista. Gabriele De Rosa, a proposito di quel testo, ha scritto che “si ebbe quasi cura di non proporre o sollecitare una continuità programmatica con l’esperienza del popolarismo, sulla quale pesava il sospetto d’essere stato troppo liberista”. 

Pochi giorni dopo, il 26 luglio, all’indomani della caduta del fascismo, fu dato alle stampe un opuscolo dal titolo Idee ricostruttive della Democrazia cristiana, firmato Demofilo (Alcide De Gasperi). Espressione di un’elaborazione collegiale, clandestinamente realizzata nella casa romana di Giuseppe Spataro, in via Cola di Rienzo, il documento è stato autorevolmente giudicato come frutto della mediazione di De Gasperi fra la visione di Sturzo e le tradizioni del solidarismo cristiano.

In esso si volle presentare la Dc come partito della nazione nella sua interezza, una nazione che si voleva sottratta alle suggestioni della lotta di classe e animata dallo spirito di conciliazione degli interessi particolari (“Il massimo sforzo sociale deve essere diretto ad assicurare a tutti non solo il pane e il lavoro, ma altresì l’accesso alla proprietà privata… la meta che si deve raggiungere è la soppressione del proletariato”). 

Idee che saranno ancor meglio precisate e sviluppate  in un articolo de Il Popolo del 10 aprile 1945 dalla forte valenza programmatica. Intitolato Il discorso di Togliatti, volle essere una risposta a un discorso del leader comunista. In esso si stigmatizza “l’impostazione classista della lotta politica [del Pci]  imperniata su una tendenza a disistimare le classi non operaie” e si elogia invece “la libera gara fra tutte le forze sociali (dalla media e piccola industria all’artigianato, dalla piccola proprietà agraria al bracciantato) che esige il concorso solidale dei larghi ceti medi, i quali possono essere alleati degli operai, ma non intendono essere sottomessi a pregiudiziali di carattere classista”.

Nella metà degli anni Cinquanta la linea “statalista” si consolidò. Nel 1956 nacque infatti il ministero delle Partecipazioni statali e con esso fu sancita la linea dell’intervento statale nell’economia, da Sturzo implacabilmente e instancabilmente condannato, perché ritenuto non solo compressivo della libera iniziativa privata, ma anche, con lucida preveggenza, inevitabile causa di corruzione della vita pubblica. Nel 1993 un referendum abrogativo portò alla soppressione del ,inistero e alla massiccia dismissione e privatizzazione di gran parte delle quote azionarie possedute dallo stato. Nel luglio del 1993, nel pieno di tangentopoli, si decise di ammainare la bandiera della Dc per far rivivere, senza rinnegamenti, le sue idealità in un partito che nella denominazione, Partito Popolare Italiano, prometteva un ritorno a Sturzo. Inopinatamente dopo qualche anno, tra non pochi contrasti, una maggioranza interna decise, però, di dissolvere anche il nuovo partito in una nuova e diversa formazione politica.

Ma questa storia, come quella ben più lunga e complessa della Dc, non può che essere affidata oggi alla serena e rigorosa riflessione degli storici.

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