(foto Ansa)

Dove conta tanto la leadership

Il partito di massa: una volta la Dc, oggi, ma in modo diverso, FdI

Dario Di Vico

Come Meloni ha sfruttato l'interclassismo, pura tecnica di mediazione politica, per far diventare Fratelli d'Italia il vero "partito della Nazione"

In un recente articolo sul Corriere della Sera Nando Pagnoncelli a proposito dell’allargamento dei consensi per Fratelli d’Italia ha usato un termine considerato finora démodé: interclassismo. La definizione serviva a spiegare come il partito di Giorgia Meloni avesse raggiunto nelle rilevazioni demoscopiche degli ultimi giorni per la prima volta l’obiettivo di primeggiare nelle preferenze sia degli operai sia degli imprenditori. L’arco sociale del gradimento per FdI è dunque così largo da spingere i sondaggisti a rispolverare il lessico di una volta, laddove il partito interclassista per antonomasia della nostra storia politica è stato ovviamente la Democrazia cristiana. Anche nella Seconda Repubblica abbiamo avuto un partito interclassista (Forza Italia) ma in questo caso la circostanza non è stata indagata a sufficienza. Come se gli studiosi non avessero voluto riconoscere a Silvio Berlusconi un’ennesima patente.

 

Il carattere interclassista della Dc, secondo Maurizio Pisati autore del libro-ricerca “Voto di classe”, era abbinato al suo essere partito conservatore ed è durato dalla seconda metà degli anni 50 fino de facto al suo scioglimento. Attraeva quote di consenso in proporzioni abbastanza simili da tutte le classi sociali con l’eccezione della piccola borghesia agricola, il cui sostegno era decisamente superiore alla media. Un’adesione straordinaria dovuta all’azione capillare di un canale di rappresentanza come la Coldiretti. La capacità democristiana di intermediare flussi di consenso che arrivavano da poli opposti o comunque potenzialmente “avversari” era dovuta non tanto all’ampio pescaggio popolare dei suoi leader quanto alla forza e al radicamento delle organizzazioni collaterali molto presenti nel mondo del lavoro dipendente (Cisl e Acli), dell’artigianato e del commercio. I bianchi contrapposti ai rossi e capaci di contendere il terreno al collateralismo del Pci palmo su palmo. A sottolineare il carattere interclassista della Dc concorreva, certo, anche il posizionamento politico di singole personalità che utilizzando la guida del dicastero del Lavoro segnalavano all’opinione pubblica la capacità del partito di ascoltare la voce degli operai. Una figura che in questo contesto vale la pena di ricordare per il valore simbolico della sua azione è quella del torinese Carlo Donat-Cattin, che ci teneva non solo a frequentare gli ambienti sindacali ma a essere considerato l’avversario dichiarato dello strapotere Fiat. Il quadro non sarebbe completo se si dimenticasse il peso della Chiesa e del consenso su base religiosa che in qualche modo chiudeva il cerchio dell’interclassismo bianco.

 

Nella Seconda Repubblica un’operazione simile, senza la profondità storica democristiana, è riuscita a Forza Italia. Che diventa partito degli imprenditori nel ’94 portando in Parlamento non solo il suo fondatore ma circa 100 tra deputati e senatori titolari di imprese o dirigenti di prima fascia delle stesse. L’accento sul “fare”, le parole d’ordine delle tre I e soprattutto i successi imprenditoriali di Berlusconi completavano il quadro di un partito espressione quasi diretta di una nuova borghesia, che reputava necessario rompere con i riti della Prima Repubblica, rifondare la politica e alla bisogna anche schiaffeggiare la Confindustria (il convegno di Vicenza del 2006). Ma se questo versante era più scontato e in qualche maniera costituiva anche la conditio sine qua non dell’affermazione di Forza Italia, vale la pena ricordare come il partito nato da Publitalia avesse avuto la capacità di sfondare anche tra gli operai. A sostenerlo fu per la prima volta un’indagine demoscopica lanciata dal Sole 24 Ore nel novembre 2010 in collaborazione proprio con l’Ipsos di Pagnoncelli che sancì un passaggio di grande importanza: era finita la relazione privilegiata tra la classe operaia e i partiti della sinistra con le varie denominazioni che via via avevano assunto. E’ chiaro che analizzando le differenze Dc-FI non si può sottovalutare il peso che almeno nella fase iniziale ebbero le televisioni generaliste che godevano esse stesse di un’audience interclassista e in virtù della visione consumista di Berlusconi-Publitalia sostenevano implicitamente una nuova sociologia del paese. Sottolinea oggi Pagnoncelli che il voto operaio per Forza Italia era anche “figlio del post fordismo, dell’imprenditorialità diffusa, della prevalenza delle Pmi e del capitalismo personale”. In una piccola azienda l’operaio “si sente parte del destino del suo padrone ed esprime le stesse aspettative quanto a meno tasse, meno burocrazia, più infrastrutture”.

 

Arriviamo adesso a Giorgia Meloni e al suo interclassismo (raggiunto) e alla sua idea di ricostruire un partito conservatore di massa. Le differenze, ça va sans dire, con i precedenti modelli sono enormi e sicuramente non si può parlare oggi nemmeno di un modello Fratelli d’Italia. Innanzitutto per la mancanza di agenzie collaterali, siano essi corpi intermedi o soggetti diversi come Chiesa/tv, capaci di convogliare consenso solido verso il partito della premier, ma anche per un altro motivo più sottile e tutt’altro che secondario. Sia la Dc sia Forza Italia erano partiti della mobilità, il loro interclassismo si nutriva di un piccolo “sogno italiano”, della possibilità di cambiare il proprio destino e salire lungo i gradini della scala sociale. La Dc in questo posizionamento era stata favorita da un’economia in grande crescita e dalla nascita di un paese industriale a tutto tondo, Forza Italia aveva goduto di una minore spinta esogena ma aveva dalla sua la forza comunicativa dell’ottimismo berlusconiano. La narrazione del fare diventava alle orecchie degli outsider “anche tu ce la puoi fare”.

 

Con Meloni la mobilità sociale viene derubricata. Certo potremmo scusarla sostenendo che l’amnesia è figlia più dello spirito del tempo che della cultura politica di FdI, ma il termine ripetuto ossessivamente dalla leader è “Nazione”. Che sicuramente ha una valenza lessicale interclassista perché fa riferimento a un corpo comune di interessi e valori ma al tempo stesso non parla di soggetti sociali, non manda alcun messaggio agli outsider. E quindi l’interclassismo di Meloni non promettendo né sviluppo (come Dc e FI) né equità (parola nemica), rimane pura tecnica della mediazione politica. Resta un’offerta à la carte. Commenta Salvatore Vassallo, direttore dell’Istituto Cattaneo e autore di un libro su FdI in uscita a febbraio (“Fratelli di Giorgia”): “Nazionalismo e conservatorismo sono due tratti che sicuramente favoriscono l’interclassismo. Non sono però gli unici e molto dipende dal fatto che Meloni ha attratto la gran parte dell’elettorato di centrodestra, ormai di per sé interclassista in virtù della ritirata sociale della sinistra progressista”. Vassallo ci tiene a sottolineare come tradizionalmente An non fosse solo “pubblica amministrazione e Alitalia” ma godesse dei favori di un elettorato di lavoratori autonomi fatto di commercianti, tassisti e avvocati che con le ultime elezioni si è allargato ai lavoratori dipendenti (in primis gli operai). Ma alla fine quest’exploit è dovuto all’idea-forza del nazionalismo/conservatorismo oppure più semplicemente alla considerazione più prosaica che tra i leader del centrodestra Meloni è apparsa sicuramente come il cavallo più pimpante (e non imbolsito)? Pagnoncelli propende per la seconda ipotesi.

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