(foto Olycom)

Il bello della Dc

Pier Ferdinando Casini, "l'ultimo democristiano", si racconta

Michele Masneri

Da Andreotti a Forlani a Di Maio, miti e riti della Balena bianca nei ricordi di "Pierfurby"

Pier Ferdinando Casini, staccato, è in gran forma. Sta predisponendo una gran presentazione del suo libro appena uscito, titolo “C’era una volta la politica”. Sottotitolo “Parla l’ultimo democristiano” (più importante il sottotitolo), ovviamente edizioni Piemme, e deve rispondere a interviste, andare in trasmissioni, mandare inviti, visionare un videomessaggio, ovviamente di un cardinale, Zuppi. Il cardinale dice tra l’altro di lui che è “disinvolto nei salotti”. Certo questa Dc è proprio cambiata. Un tempo tutta santuari e ritiri, oggi si celebra il salotto. Pier Ferdinando, staccato, mi riceve nel sontuoso studio a palazzo Giustiniani, il Dakota building del Senato (ci stanno Renzi, Segre, Rubbia, e sopra l’appartamento presidenziale). Tra foto con Ratzinger, Napolitano, Ciampi e De Gasperi, un crocifissone di legno, una statua di un santo, un santino della Madonna di Positano. È l’ex ufficio di Andreotti, il posto perfetto per fare una seduta spiritica su cos’era la Dc. Avete fatto benedire l’ufficio? “Tutto il Senato è benedetto” dice Casini, pronto, energico, vitaminico, sotto abito su misura e cravatta, sopra un felpone con cappuccio, Prima e Terza Repubblica insieme, il potere logora chi il fisico non ce l’ha.  

   
Pier Ferdinando, staccato, l’eterno ragazzo del muretto democristiano, è alla sua undicesima legislatura, e celebra i suoi primi 40 anni tra Camera e Senato. Se li porta benissimo. Pier Ferdinando l’ho avvistato recentemente a correre a Villa Borghese, adesso: “Dica alla signora che mi prepari il solito salmone con verdurine, tante”, ordina a uno dei tre assistenti efficientissimi e indaffaratissimi. Una volta Paolo Guzzanti ha scritto che Casini l’aveva invitato a pranzo e il pranzo consisteva in una mela (dopo la pera di Einaudi, la mela di Casini). “Che vuole, la mia vita è una costante alternanza tra abbuffate e diete”. In tema alimentare, pare che Andreotti qui avesse un angolino in cui teneva pasta, pelati, generi di prima necessità da dare ai clientes, agli elettori. “Io pasta qui non ne ho trovata”, dice lui. Non l’avrebbe comunque toccata. Pier Ferdinando, staccato, ha pure una nuova fidanzata. “Sì, pensi, di Bologna, la conosco da quando aveva dieci anni. Figlia di un segretario provinciale della Dc”. Bologna è un grande ritorno a casa, lì si è candidato e ha vinto trionfalmente nel 2022. E nel libro si rimembrano i primi comizi in collina, il treno per Roma delle 5.40, l’aereo  con il vecchio Zaccagnini carico di bagagli… e la vecchia politica dove si conosceva tutti e tutti si conoscevano, “mica come oggi coi candidati calati dall’alto che nessuno sa chi sono”.

  

È tutto un vecchio mondo andato, Casini celebra anche il deep state e i portaborse, non è insomma lo “Spare” della Democrazia cristiana, lui mica si lamenta; anzi è tutto un ottimismo, il sapore della vita! Anche la mancata elezione al colle più alto, sfiorata, sfioratissima, un anno fa, quando fu davvero lì lì per essere eletto al Quirinale, la prende con quella nonchalance che tutti gli hanno sempre invidiato. “Ma cosa vuole, la categoria degli aspiranti presidenti della Repubblica è vastissima”, dice, e forse questa invidiabile ironia gli deriva da uno dei suoi maestri, Arnaldo Forlani, ras della Prima repubblica, che pure lui la mancò esattamente trent’anni prima, la fatal elezione, nel ’92, “e non fece una piega. Domani è un altro giorno, disse”. “Britannico, fatalista, pigro”, dice che era Forlani, noto per questa inscalfibilità, “che a volte era pure esasperante. Ci fu un famoso caso in cui Donat Cattin lo cercò per giorni e per una questione piuttosto urgente e quello non rispondeva proprio mai, chiuso nella casa dell’Eur. Allora venne la famosa battuta: questa non è la segreteria Forlani, questa è la segreteria telefonica”. Ma Forlani, dice Casini, insegnava il senso relativo del potere e delle cariche. “Tutto un’illusione ottica. Le cose importanti sono altre”. E poi non bisogna sbattersi più di tanto “perché c’è la provvidenza”.  

 

Dall’aerea intangibilità al puro martirio, l’immagine di Forlani con la bava alla bocca, impietrito sotto le domande di Di Pietro, è forse l’istantanea più tragica della fine della Prima repubblica, e quindi anche della Dc, “anche se fu un atto in un certo senso eroico, Forlani stava male, aveva preso dei farmaci alla mattina, ma volle andare a testimoniare in aula lo stesso”. Casini ritiene comunque che non sia stata Tangentopoli a chiudere quella gloriosa storia, la Dc moriva, assai dolcemente, da anni. Forse dal ritrovamento di Moro, sicuramente con la caduta del muro di Berlino, “che rendeva non più possibile la tenuta di un partito variegato come la Dc, tutto polarizzato contro i comunisti. Il muro di Berlino è caduto in testa ai democristiani”. Ma oggi che si è passati alla equiparazione totale comunisti-fascisti, lei è d’accordo? “Come ideologie sì, il nazifascismo e i gulag sovietici sono le grandi mostruosità del Novecento. Ma il comunismo in Italia non si è mai realizzato. Anzi, se pensiamo all’eurocomunismo di Berlinguer e di Napolitano, quello alternativo a Mosca, quando dichiarano di sentirsi più protetti dall’ombrello della Nato, direi che è un’altra cosa. E non dimentichiamoci il contributo enorme del Pci e della Cgil nella lotta contro le Brigate rosse”. 

 

A proposito di fascismo e post fascismo, anche Gianfranco Fini veniva al suo liceo. “Sì, al mitico Galvani di Bologna, ma non l’ho mai visto lì”. Talmente mitico era il liceo che il segretario del Pci, Natta, “sapendo che avevo studiato lì mi si rivolgeva regolarmente in latino, pensando che lo parlassi correntemente”. Come nasce questa cosa del Pier Ferdinando, staccato? “Fu un compromesso di mio padre, da una parte c’era il suo caro amico Piero Casarini che era morto in guerra, e poi c’era il nonno che si chiamava Ferdinando. Li ha usati tutti e due”. Very democristiano. Il padre è molto importante nella sua vita; impegnato in politica, arriva fino a essere segretario provinciale, e manca l’elezione a deputato. Il figlio lo vendicherà diventando deputato permanente. Questa comunque è una storia di padri, veri e putativi. “I grandi vecchi del partito erano molto attenti ai nuovi che si facevano notare. Così Fanfani: segretario del partito, mi sentì a un convegno, e mi chiamò a Roma a riorganizzare i giovani Dc”. Un altro suo mentore è Toni Bisaglia, leggendario dc veneto poi morto in circostanze misteriose, caduto a Portofino dalla barca della aristo-morosa Romilda Bollati di Saint Pierre. Possiamo dire che le assomigliava? Belle case, barche, donne? “No, per niente, in realtà era molto parco e timido, e io non sono timido per niente. Ma gliene succedevano di tutti i colori. Una volta, da ministro dell’Agricoltura, la sua auto centrò in pieno un casello dell’autostrada, a causa della nebbia, e lui rimase accartocciato nelle lamiere per ore, perché nessuno s’era accorto che stava seduto dietro. Poi aveva avuto altri incidenti”. Anche il fratello di Bisaglia, prete, morì affogato. “Ma anni dopo. Non ci sono correlazioni. Ed era un tipo particolare”. 

 

Bisaglia era famoso anche per la celebre frase: io ho due figli, uno intelligente e uno bello. Marco Follini era l’intelligente e Pier Ferdinando il bello, “ma io a lui non l’ho sentita dire mai”. Però “il politico più bello d’Europa”, l’ha detto di lei Berlusconi, questo è accertato. Bisaglia diceva anche che non bisogna mai mentire, semmai omettere, perché le bugie si dimenticano e si fanno figuracce. “E io di bugiardi che fanno figuracce ne ho sentiti tanti”. Allusione al Cav? “Ma Berlusconi con quella bocca può dire ciò che vuole”, dice sornione Casini. A proposito, nel libro scrive che avrebbe fatto bene a vendere tutto a Murdoch negli anni Novanta, quando il tycoon australiano lo corteggiava. “Confermo. Avrebbe fatto bene. Politicamente ed economicamente”. 

 

Anche il consiglio di fare sempre discorsi a braccio, mai scritti, è di Bisaglia? “No, è di mio padre. Diceva che se nasci scrivendo muori scrivendo”, dunque per coinvolgere l’uditorio bisogna fare tutto a mente. E lui certamente lo coinvolge. Bello, atletico, “ho sempre messo la politica al primo posto”, e invece che fondare aziende o scalare la finanza o fare il cantante o l’attore, fin dal liceo batte tutti i comuni, parla in tutti i comizi, ha un sacco di preferenze, trentacinquemila il primo anno, sessantamila il secondo… “La mattina mi alzavo non tanto presto. Ma a 27 anni avevo una rete in tutta la circoscrizione! Al bar dagli amici arrivavo a mezzanotte, dopo aver fatto i miei comizietti. Battevo i paesi, ero l’unico candidato giovane”. Coi suoi comizi d’amore Pier Ferdinando seduce quel gran pezzo dell’Emilia di Peppone e don Camillo, e finalmente cala a Roma, prima a riorganizzare i giovani del partito e poi nell’83 deputato; e lì telefona immediatamente al padre dalla cabina telefonica di Montecitorio, quando esistevano, ma non riesce a parlare, riesce solo a singhiozzare la vittoria. Da don Camillo alla Camilluccia, la scuola della Democrazia cristiana (per i più piccini, esistevano scuole del Pci alle Frattocchie e appunto la Camilluccia a Monte Mario per la Dc). Direttore Franco Salvi, proveniente dalla corrente cosiddetta dei “mater dolorosa”, che girava con un thermos di brodo caldo, “un tipo particolare”, dice Casini. Con “tipo particolare” Casini sembra collocare in una speciale scatola laterale tutto ciò che esula dalla normale avventura scanzonata che è la vita, vita democristiana, spericolata.


Se la Dc evoca soprattutto cinematograficamente onorevoli alla Ugo Tognazzi alle prese con suore e censure e cappotti lisi, o più recentemente lugubri chiaroscuri da “Esterno notte”, Casini ricorda più un gaudente Renzo Montagnani da “La moglie in vacanza, l’amante in città”. L’accento bolognese fa tanto.  Però per i suoi primi 40 anni di politica ci si aspettava un libro più sexy, con più aneddoti, più alla Claudio Martelli, in fondo Casini è il Martelli del Psi. Invece ci sono soprattutto dettagli edificanti, “i ritiri all’eremo di Ronzano: mangiavamo coi frati”. Daje a ride. E poi conventi, santuari, rosari. Case tristi. De Benedetti raccontò d’essere stato da Andreotti e d’essere rimasto sconvolto dall’arredo piccolo borghese. “Erano case semplici, sobrie, non solo quella di Andreotti, quelle di tutti. Io rimasi colpito dalla povertà di quella di Scelba”. Però “Andreotti andava in vacanza a Cortina e dormiva in convento, ma poi andava a giocare a bridge da Sandra Carraro”. Anche lei è stato a Cortina a Natale. “Sì, ma non in convento”. Certo, che vite, le vite Dc. Tutto un immaginario. “Un giorno, appena eletto, incontro in aula Saragat, per cui avevo un’ammirazione immensa. Gli vado vicino, a cinque metri, ma poi non resisto per l’emozione e scappo”. Essere fan di Saragat come oggi lo si sarebbe di Timothée Chalamet. Il 1983, anno fatale per Pier Ferdinando e per l’Italia è quello in cui Luigi Pintor scrive sull’Unità: “Non moriremo democristiani”, nel senso che la Dc pare in crisi. E’ invece l’anno in cui entra in servizio “l’ultimo democristiano”.  

 

Che poi, altro che ultimo: “Oggi i democristiani sono ovunque”, non c’è solo Mattarella, “il migliore di noi”; o i “Dc certificati alla Lorenzo Cesa o alla Dario Franceschini; vengo continuamente fermato, anche tra i Cinque stelle, c’è chi mi dice ‘mio padre era nell’Udc’”. A proposito di Cinque stelle, Di Maio ci ha illusi tutti, sembrava la reincarnazione perfetta dell’homo democristianus, progettata da uno scienziato pazzo cresciuto a palazzo Cenci-Bolognetti. “Già, ha imparato molto, diciamo che lui la scuola politica l’ha fatta a spese della casa”. E poi però l’errore clamoroso. “Si è lasciato sedurre dall’idea di un partito un po’ draghiano che potesse emanciparlo dai Cinque stelle. Facendo un enorme regalo a Conte. Un vero dc un errore così non l’avrebbe mai fatto”.


Nella Dc ognuno aveva un soprannome, fantastici nickname animali: Clelio Darida era “la Volpe argentata”, Vittorio Sbardella “lo Squalo”, Forlani “il coniglio mannaro”. Pier Ferdinando è per sempre “Pierferdi” o “Pierfurby”. “Quest’ultimo soprannome me lo dette Francesco Cossiga. Uomo capace di grandi cattiverie alternate a grandi affettuosità. In quel caso poi mi attaccò proprio mentre ero alle prese con una separazione dolorosa. Disse ‘Casini non si occupa di politica, si occupa di donne’”. Però la vulgata è quella. C’era una bella imitazione di un giovane Neri Marcoré che faceva così: con accento bolognese da Gigi e Andrea, “ciao, sei una casalinga annoiata? Una manager insoddisfatta da questa maggioranza minidotata? Ti piacciono le convergenze ma hai paura di confessarlo a tuo marito? Contattami. La politica è una cosa sporca, facciamola insieme!”. E Rino Formica ha dato di lei una definizione micidiale: “Un atlantista forlaniano dalla vita personale dissoluta, un arcitaliano perfetto rappresentante dell’Italia bigotta e trasgressiva”. “Ma Formica dà sempre queste immagini colorite”, risponde Casini. “E poi dissoluto non direi”. Però ci tolga un dubbio: ma la storia del suo secondo matrimonio, quello con Azzurra Caltagirone, finito perché l’avrebbero sorpreso con la babysitter, è vera? “Macché, è una bugia che all’epoca misero in giro un paio di persone”. Ce le dica subito. “Sospetto che Emilio Fede sia una”. E l’altra? “Credo Vittorio Feltri”. Non c’è dubbio comunque che le donne siano state importanti nella sua vita. “Be’, certo, in quella di ogni uomo”. Dipende. Emilio Colombo, che era notoriamente gay, pensa che sia stato penalizzato nella Dc? “Direi di no, erano altri tempi, di queste cose non si parlava. E comunque ha fatto il presidente del Consiglio, il presidente del Parlamento europeo, il senatore a vita. Pensa se non lo penalizzavano!”.

 

Ma la Dc era un partito sessuofobico? Lei stesso ha votato contro il divorzio salvo poi avere divorziato ben due volte. “Vede, io considero i miei due divorzi come due fallimenti. Però all’epoca erano proprio diversi i tempi, io oggi parlo con mia figlia che mi parla della fluidità di genere e capisco che è un fatto proprio generazionale, non politico. C’è un gap”. E’ un’ammissione importante, questa, Casini. “Sì, è importante”. Quindi se adesso lei tornasse e fosse il giovane deputato alla prima legislatura, la penserebbe diversamente? “Sì, la penserei diversamente. E’ proprio la società che è cambiata. Nel Parlamento son tutti divorziati e separati, trent’anni fa sarebbe stato inconcepibile. Basti vedere il Papa, che dice ‘chi sono io per giudicare’”. A proposito, Meloni è andata dal Papa col suo compagno. “Trent’anni fa sarebbe stato inconcepibile”. Certo fa un po’ rodere che a beneficiare dei cambiamenti è chi li ha sempre avversati. “Ehhh cosa vuole”; dice Pierferdy, “è la società che è cambiata”.  A proposito, Meloni lei nel libro la descrive come “provinciale”. “Be’, sì, non direi che ha grande esperienza o caratura internazionale. Magari si farà, io rimango un patriota”. Ma tornando ai Papi: nel suo libro  “Invano”, Filippo Ceccarelli ricorda come la Dc in qualche modo si doveva un po’ difendere dalle interferenze dei pontefici. Uno dei suoi maestri, Fanfani, rispose a un inviato vaticano: “Se lei verrà ancora una volta a insegnarmi come mi debbo regolare, io verrò in Concilio a insegnare a dire messa”. Aldo Moro pure aveva la sua teoria su come trattare Oltretevere: “Bisogna essere duri, è l’unico modo d’agire che capiscono”. “La Democrazia cristiana è sempre stata laica, questo era la base”, dice Casini. “Europeista, atlantista, interclassista, pluralista e laica. Era proprio l’Abc”. Però nel libro lei scrive che quando venne Wojtyla alla Camera da lei presieduta fu il momento più alto della sua carriera. “Sì, ma la Dc non è mai stata clericale”. A proposito, in quell’episodio racconta che lei era preoccupato per il Papa già malato, che avrebbe dovuto salire molte scale, e telefonò al segretario don Stanislao, il quale la tranquillizzò dicendo: “Ma lei non considera la provvidenza!”. 


Però se uno ha i superpoteri della provvidenza, ci si chiede perché ci si dovrebbe dare tanto da fare. “Eh, ma cosa c’entra”, salta su Casini. “La provvidenza va agevolata con gli atti. ‘Operare molto come se tutto dipendesse da noi, e pregare di più perché tutto dipende da Dio’, è Sant’Ignazio di Loyola”. Di gesuita in gesuita, le piace Bergoglio? “Diciamo che il mio Papa è stato Wojtyla. Ma io credo nello Spirito santo e nella provvidenza. Credo che la provvidenza non abbia sbagliato nel darci Bergoglio”. 

 

Ma ha sentito che pure lui vuole dare le dimissioni? Che avrebbero detto i democristiani di un tempo? “Ah ma questo è inconcepibile, non credo proprio. Non è che adesso fare il Papa diventa un lavoro part-time, perché ti fa male un ginocchio!”, salta su Casini. “Va bene una volta, ma mica sempre… Certo sì, il problema del ginocchio, ma mica deve governare col ginocchio, può governare anche seduto!”. E poi “aspetta, ti faccio vedere una foto”, e caccia una foto con Papa Francesco, “è un uomo che è in forma, daaai”. Adesso scappa, che deve andare in una trasmissione tv, e poi a fare un’altra intervista, e chissà. Chissà se Casini ci crede davvero nella provvidenza: ma sicuramente la provvidenza crede tantissimo in Casini.

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).