Gran circo Orlandi. Dopo quarant'anni, ci manca solo la Commissione d'inchiesta parlamentare

Valerio Valentini

Due fratelli conducono una sacrosanta guerra per la verità. E hanno ragione anche quando hanno torto. Ma tutt'intorno, si muovo la solita italica commedia del complotto: i giornalisti stranieri ci sguazzano, quelli nostrani provano a guadagnarci, le case editrici sfruttano l'anniversario e le procure si muovono di conseguenze. Potrebbe andare peggio: potrebbe iniziare a indagare il Senato

Davanti a noi ci sono due persone che da quarant’anni, con nient’altro che la loro perseveranza, pretendono di sapere, ed è una pretesa sacrosanta, che fine abbia fatto la loro sorella. E fosse anche  per questo, per il dolore accumulato e la verità negata, a Pietro e Natalina Orlandi va riconosciuta la ragione che si deve concedere a chi ce l’ha, ragione, anche quando ha torto. Su cui forse neppure sarebbe il caso di soffermarsi, se non fosse che poi, all’ombra del torto di loro che hanno ragione, fiorisce quello di chi invece fa caciara e basta, e nella cacofonia di fondo che da quarant’anni accompagna questa faccenda rivendica ragioni che invece non ci sono. E dunque eccoci qui, con la nostra solidarietà evanescente – noi che  intanto ci lamentiamo del caldo, del collega due file più avanti  (Ahò, scànzete, me ‘mpalli er primo piano) – a fare i conti con l’ennesimo scoop sul caso Orlandi.

Che del resto questo sarebbe stato un periodo fervido di “novità”, sulla scomparsa della povera Emanuela, c’era da attenderselo. Perché gli anniversari sono un business, sia pure residuale, che frutta ancora bene alle case editrici: dunque ecco che nell’approssimarsi del quarantennale, truppe di detective di lunga data o dell’ultima ora, insomma quella folta schiera di acuti risolutori seriali di misteri italiani che tuttavia restano sempre “irrisolti”, salvo che nelle quarte di copertina, ecco che era fatale, si diceva, che questa squadra di segugi venisse assoldata da editor all’avanguardia. Inevitabile, quindi, che su quello stesso anniversario ci si affannassero poi i giornali: titolando a nove colonne su dettagli magari marginali, quando ce n’erano, e sennò riciclando alla bisogna cose già scritte, già dette, forse già confutate, ma che illuminate di luce nuova, cioè vecchia, e insomma in virtù di nuove connessioni, di certo evidenzieranno verità nuove, o forse dubbie, o forse chissà. Perché del resto  l’obbligo non è dimostrare: è solo alludere, evocare, far vedere che, in fondo, e non importa come, tout se tient (Only connect, il motto nefasto di E. M. Forster, non a caso dà il titolo, oggi, a un quiz show di successo sulla Bbc).

Che così funzioni la stampa, bellezza, poco male. O forse non poi così poco, ma vabbè. Che però su questa logica perversa si muovano poi le procure, che nel clamore mediatico trovano l’intuizione per riaprire l’inchiesta, “accendere di nuovo i riflettori”, questo sì che diventa il guaio. E dunque eccoci qui, alle quattro del pomeriggio di metà luglio, nella sede della Stampa estera, ad ascoltare le giuste recriminazioni di Pietro e Natalina Orlandi. L’ultima volta che la sala in Via della Missione era così gremita, due mesi e mezzo fa, c’era Denys Shmyhal, primo ministro ucraino, a parlare di guerra e resistenza. Oggi ci sono i fratelli di Emanuela – e certo pure la loro è una guerra e una resistenza, a suo modo – e i corrispondenti spagnoli, tedeschi e americani, che non deve parergli vero: Vaticano, mafia, Ior, terrorismo o forse “servizi deviati” o forse pedofilia. L’Italia che piace all’estero: non a caso Netflix c’ha scommesso.

E sì che stavolta il cortocircuito è tale per cui, a denunciare la fuoriuscita di “una verità” che non lo era, sono proprio gli Orlandi. E non è solo che quando ci si affeziona alla pista degli scandali del Santo Padre, accogliere come verosimile i mezzi depistaggi sullo zio sporcaccione è inaccettabile: davvero, giurano loro e con adamantina credibilità, le “avance verbali” che Mario Meneguzzi fece alla nipote Natalina, allora ventunenne, nel 1978 – cinque anni prima della scomparsa di Emanuela – nulla hanno a che vedere col mistero della loro sorella minore. Solo che proprio questo sembrerebbe dover suggerire, forse, una certa cautela nel voler cercare todo modo la verità: perché in quella totalità di mezzi è inevitabile che finiscano mistificazioni, prove dubbie, deposizioni improvvisate di mitomani. In fondo questa ambigua faccenda dello zio che Pietro Orlandi legittimamente denuncia come uno sviamento sembra derivare da una “prova” non meno stramba di quella registrazione in cui un tale “ex esponente della banda della Magliana” spiegava in un bar, col tono del pallonaro che la sa lunga, che era tutta colpa di Wojtyla e della sua passione morbosa per le ragazzine, e che lo stesso Pietro Orlandi brandiva in diretta televisiva per “chiedere che venga fatta luce”.

E dunque è doveroso, perché la sceneggiatura a questo punto lo esige, che questa storia in cui le verità sono imprendibili e granitiche allo stesso tempo, a seconda di come le si voglia, che si finisse, in Italia, con la proposta di una commissione parlamentare d’inchiesta. Gli Orlandi la chiedono; il sottosegretario Alfredo Mantovano, con la delega ai Servizi, li ha incoraggiati a chiederla, dicono loro; La Russa ci sta pensando. Dunque si farà, pare. Dopo quella sulla mafia, dopo quella sulle banche, e sui femminicidi, e sul ciclo dei rifiuti, e sul Forteto, e su Aldo Moro, e su Ilaria Alpi, e su Emanuele Scieri, e su Telekom-Serbia, e sul Cermis, e Sindona, e la P2, e sul Piano Solo, e sui fondi neri all’Iri, e poi e poi e poi, perché non anche su Emanuela Orlandi, del resto? “Così finalmente si potrà cercare dove non lo si è fatto”, dice Pietro Orlandi, alludendo a “due o tre cardinali che si sa che avevano certe preferenze per le ragazzine”, e a monsignor Vergali che “guarda caso”, aggiunge Natalina, “sta sempre in Vaticano, anche oggi”. E sarebbe il luogo, quello, dove poter rendere pubbliche documentazioni nuove, prove inedite? “Ma un commissione parlamentare d’inchiesta allarga tantissimo i margini sugli apparati dello stato”, risponde l’avvocato degli Orlandi. E va bene, certo. I margini, gli apparati dello stato. Avanti così, ancora: tra dieci anni arriva il cinquantennale. 
 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.