alla vigilia del Consiglio europeo

Mes, Pnrr, Bce. Il mal d'Europa di Meloni alla prova del Parlamento

Valerio Valentini

Il mancato rispetto dei tempi sulla scadenza di giugno del Recovery. Gli stratagemmi per il rinvio sul Fondo salva stati. Le incognite per la sostituzione di Panetta nel board dell'Eurotower. La premier ha molte insidie da evitare

Stare sul merito. L’alibi stavolta ha pure un suo fondamento, la reticenza avrà una sua giustificazione. Se Giorgia Meloni, nelle comunicazioni al Parlamento, aggirerà abilmente le paludi del Mes e del Pnrr è perché a rigore, nelle conclusioni del Consiglio europeo che verranno discusse giovedì e venerdì a Bruxelles, quegli argomenti non verranno toccati, almeno formalmente. Saranno oggetto di chiacchiere e conciliaboli a margine, magari, ma non entreranno nei documenti ufficiali. E insomma la premier si atterrà al testo per evitare il resto. Tanto più che il resto, a ben vedere, dice di un affanno del governo sull’agenda europea illuminato perfino dalle coincidenze. Il 30 giugno segnerà infatti la scadenza del semestre del Recovery: e, per la prima volta dal varo del Next Generation Eu, l’Italia non presenterà la richiesta di pagamento entro i tempi ordinari.

Nulla vieta, beninteso, di rivedere il calendario: ritardare l’istanza di liquidazione di una rata  di per sé non compromette il percorso del Pnrr. Però sarà un segnale, questo sì. E non di quelli rassicuranti. Perché a distanza di sei mesi, resta ancora sospeso il pagamento della terza rata: la Commissione prosegue coi suoi controlli a campione sui 55 obiettivi di dicembre, e lo fa con uno scrupolo che indispone non poco Palazzo Chigi, dove si ammette che la risoluzione dell’enigma non è imminente. E nel risiko dei ritardi, è fatale che ci finiscano anche i 27 target di giugno, da cui dipendono 16 miliardi. Raffaele Fitto, del resto, lo aveva ammesso, sia pure con fumosi riferimenti ai regolamenti comunitari, nella Relazione semestrale di due settimane fa: il governo ha già comunicato a Bruxelles che si avvarrà di una procedura d’emergenza che consente di congelare la verifica dell’attuazione del Piano, e l’erogazione della relativa rata, fino a sei mesi. Con buona pace delle ansie di chi, al Mef, fa notare che continuare a rinviare l’incasso dei bonifici europei pone dei problemi contabili e di liquidità al Tesoro. Anche su questo Giuseppe Conte si farà sentire, in Aula, accusando la premier di sprecare opportunità (e soldi) che lui seppe ottenere dalla Commissione. Vabbè.

D’altronde, il tempo che passa evidenzia le lentezze italiane anche nel confronto con gli altri stati membri. “Solo cinque paesi hanno presentato le modifiche ai propri Piani nazionali di riforma”, diceva Fitto il 31 maggio scorso, come in cerca di attenuanti. Da allora i paesi che hanno conseguito il risultato sono diventati otto (Francia e Malta nei giorni scorsi, la Spagna a metà giugno, ed è forse quello, per la portata del Piano di Madrid, il raffronto più impietoso), ma a Palazzo Chigi nessuno pare avvertirne la gravità.

E non potrebbe essere altrimenti, se è vero che nessun imbarazzo sembra produrlo, nella cerchia degli strateghi meloniani, neppure l’essere l’unico tra venti paesi a non aver ratificato il Mes. Sembrava che il parere fornito dal Mef sulla convenienza del varo del nuovo Fondo salva stati potesse fornire il pretesto per la svolta. E invece chi ha raccolto gli sfoghi di Meloni sa che lei, piuttosto, prepara l’imboscata agli alleati: a tempo debito chiederà a Giancarlo Giorgetti di fornire, lui in prima persona, un giudizio al riguardo, e di farlo in una riunione in cui sia presente anche Matteo Salvini, così da fare emergere le contraddizioni leghiste. Ma non è questo il tempo, in ogni caso. Ora l’obiettivo è solo rimandare, e per farlo si fa ricorso a tutte le raffinatezze procedurali possibili. Per questo, la conferenza dei capigruppo della Camera oggi pomeriggio non si opporrà all’approdo in Aula del ddl voluto dal Pd per la ratifica del Mes: ma per quel giorno, il testo arriverà in assemblea senza i pareri necessari delle commissioni competenti, così da giustificare una sospensione dei lavori da parte del centrodestra.

Come che sia, neppure di Mes si parlerà a Bruxelles, nel Consiglio europeo di giovedì e venerdì. Dunque anche questo sarà un tema eluso oggi dalla premier, quantomeno nel suo discorso iniziale alle Camere. Quanto all’economia, la premier si soffermerà sulla risposta europea all’Ira americano, sull’approvvigionamento di materie prime e l’affrancamento dalle dipendenze strategiche. Ci sarà forse, quello sì, un riferimento non proprio benevolo alle scelte della Bce, che già ieri s’è guadagnata, e non è una novità, le critiche dei vicepremier Salvini e Tajani dopo l’annuncio del rialzo dei tassi da parte di Christine Lagarde. Colpisce semmai il fatto che proprio in quelle ore Meloni guardava a Francoforte anche per altri motivi, e cioè per avviare l’iter di nomina di Fabio Panetta al vertice della Banca d’Italia. L’economista romano è da sempre il candidato prediletto da FdI, e il più autorevole, per la successione a Ignazio Visco in autunno, ma pure quella scelta annunciata pone nuove incognite per i patrioti. Perché arrivando a Palazzo Koch Panetta lascerà il board della Bce, e il suo rimpiazzo pone a Meloni un bel rompicapo. Non è scontato infatti che verrà nominato un italiano, al suo posto: e però per evitare la figuraccia sovranista –  sarebbe la prima volta per l’Italia senza rappresentanza ai vertici dell’Eurotower – Meloni potrebbe vedersi costretta a fare campagna per quel Piero Cipollone, il più accreditato tra i papabili italiani, che fu consigliere economico di Conte. 

Meglio dunque, almeno per oggi, parlare di immigrazione. Ma la parte preponderante del discorso della premier se lo prenderà la guerra. Su cui la capa di FdI non rinuncerà a bacchettare l’opposizione. Approfittando, peraltro, dell’assenza di Schlein: che anche stavolta, come già nella scorsa occasione di marzo, marcherà visita ed eviterà il confronto diretto con la premier. “Perché aveva già fissato da tempo un impegno a Bruxelles”, dicono dal suo staff. “Perché preferisce non esporsi sull’Ucraina”, malignano nel Pd. E non è detto che una cosa escluda l’altra.
 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.