Oltre il Molise

Mes, Trump, Cina, Ucraina. “La politica estera tra Pd e M5s è un problema”, dice Provenzano

Valerio Valentini

"Speriamo che sia davvero un campo largo, e non solo un Campobasso", sorride Guerini. Sul Salva stati l'ultima insensatezza diplomatica grillina. Non c'è solo l'Ucraina, ma anche la Via della Seta e le elezioni americane. Quartapelle: "Conte vuole ricongiungersi a Salvini"

Sarà la coincidenza elettorale, a suggerire il calembour, o forse l’eccesso di entusiasmo per un caffè d’inizio estate e una chiacchiera da bar. Sta di fatto che Lorenzo Guerini il dubbio lo condivide così, coi suoi parlamentari più vicini. “Speriamo che sia davvero un campo largo, e non solo un Campobasso”, sorride l’ex ministro della Difesa. Ma nel farlo invita ad alzare lo sguardo: va bene, certo, la competizione in Molise ha la sua importanza, tanto più che ormai, anche nei voti locali, le occasioni in cui il centrosinistra riesce a presentarsi più o meno compatto vengono puntualmente salutate come l’inizio di qualcosa che poi abortisce presto, “modelli” che non evolvono, “laboratori” senza invenzioni. Ma oltre ai confini ristretti del Molise, dove Pd e M5s sostengono, insieme ad Azione ma non Italia viva, il grillino Roberto Gravina, sindaco del capoluogo che sogna il grande salto, c’è un mondo intero. Ed è su quello, e non pare poca roba, che invece la bussola del Nazareno pare incompatibile con quella del contismo.

Ed è una divergenza notevole, se anche Peppe Provenzano, responsabile della diplomazia di Elly Schlein, ci spiega che “sì, in politica estera tra Pd e M5s ci sono differenze che vanno affrontate, non nascoste, perché dalla politica estera passa anche la credibilità di un’alternativa di governo”. L’ultima dissonanza s’è registrata due giorni fa, sul Mes. Nel voto in commissione Esteri, quello che ha messo a nudo gli imbarazzi di una destra che ha scelto la diserzione in massa come estremo rifugio, il M5s si è astenuto. E lo farà anche nei prossimi passaggi, anche laddove si dovesse arrivare in Aula. “Una scelta semplicemente incomprensibile”, sentenzia Provenzano. Roba che Enzo Amendola, che per Giuseppe Conte ha gestito i rapporti con Bruxelles, che insieme a lui e a Roberto Gualtieri ha negoziato sulla riforma del Fondo salva stati nel governo rossogiallo, è rimasto di stucco: “Ma come? Se è stato proprio il vostro Giuseppe a condurre quelle trattative e a dare il primo via libera alla ratifica nel Consiglio europeo del settembre 2020…”. Solo che quelli, i grillini, hanno allargato le braccia. “Rinneghiamo noi stessi? Ma no, ma no…”, diceva giovedì pomeriggio alla buvette di Montecitorio, come cercando una giustificazione che non c’era, Michele Gubitosa. “Mo’ però scusate ma ho un impegno”. Il senso del paradosso prova allora a darlo Stefano Patuanelli: “Il sì al Mes di Conte era in una logica di pacchetto, che andasse cioè di pari passo con altre riforme che né Draghi né Meloni hanno mai portato avanti”. Più verosimilmente, tutto sta nel richiamo della foresta populista: nella guerra di posizionamento in vista delle europee del 2024, Conte torna ad accarezzare la retorica dei bei tempi andati. Così almeno la vede la deputata dem Lia Quartapelle: “Troppo spesso le pulsioni sovraniste riaffiorano nei tatticismi del M5s in politica estera, quasi come se Conte volesse ricongiungersi a Salvini”.

Certi amori, del resto, e la farsa quirinalizia del 2022 lo dimostra, non finiscono. E in fondo anche Enrico Letta ebbe a constatare come “Conte non avverte il vincolo della politica estera”. Che è un qualcosa che lo stesso Provenzano, il quale pure si sforza non poco di tenere aperto il dialogo col grillismo, constata: “Noto  un certo tasso di strumentalità delle posizioni attuali del M5s”, ci dice. “Del resto, erano partiti dall’essere euroscettici nel Conte I e nel Conte II hanno condiviso un’impostazione fortemente europeista”. E ora?

Chissà se di geopolitica hanno parlato, Schlein e Conte, nel bar di Campobasso. Certo è che i mesi che verranno imporranno scelte di campo nette. Sulla guerra, le distanze sono tali che la stessa segretaria, nella direzione di lunedì scorso, le ha definite “enormi”. Lì passa la linea di faglia del mondo, ormai. E pensare che un’alleanza con velleità di governo possa starci a cavallo è forse ingenuo. Altre, però, sono le incompatibilità che si manifesteranno. Dalle parti di Conte annunciano già che “sul mancato rinnovo della Via della Seta protesteremo”. Fu quella, forse, la più scriteriata delle mosse diplomatiche del contismo di governo: e se Giorgia Meloni sta cercando una exit strategy dignitosa entro dicembre, il M5s rivendica ancora l’amicizia con Pechino come un proprio vanto. “Dall’accordo con la Cina abbiamo tratto solo vantaggi”, dice Patuanelli. Cosa che deve suonare inquietante alle orecchie di buona parte del gruppo dirigente del Pd.

E poi c’è l’America, ovviamente.  E lì la sensibilità di Schlein, che proprio nella campagna a favore di Obama del 2014 fece il suo esordio nell’attivismo politico, è nota. “Ma nota è pure la sintonia tra Giuseppi e Donald”, ripete Guerini. Che, non a caso, il suo avviso lo ha messo a verbale in direzione, spiegando che il M5s dovrà sciogliere le sue ambiguità sul trumpismo di ritorno, in vista della sfida per la Casa Bianca. Che è, sia detto con rispetto, più decisiva di quella per il Molise.
 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.