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Il cav. delle libertà

La libertà è la grande eredità del berlusconismo

Sergio Soave

Più libertà per le persone, per le imprese, per l’Italia, un retaggio che è anche una responsabilità pesante per chi vorrà o saprà intestarsela

Per capire che trasformazioni abbia promosso Silvio Berlusconi, morto ieri all’età di 86 anni, nella politica e nella società italiana bisogna rivisitare la situazione esistente quando iniziò la sua attività imprenditoriale e poi quella politica. La stagione del ’68 aveva portato a una progressiva crescita del Pci, fino al compromesso storico, il che aveva permesso di condizionare la libertà di mercato con quelli che Enrico Berlinguer aveva definito “elementi di socialismo”. Di fatto si era creato un blocco dell’attività immobiliare abitativa anche per effetto della legge sull’equo canone che aveva distrutto il mercato degli appartamenti in affitto, si erano consolidati monopoli pubblici ormai superati in tanti altri paesi occidentali. Non solo l’informazione radiotelevisiva era in regime di monopolio pubblico: era vietata anche l’intermediazione di mano d’opera, monopolio di inefficienti uffici di collocamento statali, con effetti paralizzanti sul mercato del lavoro e prosino la raccolta di risparmio era gestita in regime di esclusiva dal sistema bancario, essenzialmente pubblico, perché era vietata la costituzione di fondi di investimento privati. La grande borghesia imprenditoriale si era adatta col tradizionale trasformismo alla situazione, difendendo le posizioni dominanti attraverso il “salotto buono” di Enrico Cuccia, e, come si scoprì più tardi con l’esplosione di Tangentopoli, attraverso un rapporto illecito con le forze politiche delle nuove maggioranze di pentapartito che avevano seguito il fallimento del compromesso storico.

Berlusconi intuì che quel sistema illiberale aveva i piedi d’argilla e lo attaccò con le sue attività imprenditoriali. Cominciò con l’edilizia, convincendo l’amministrazione di sinistra di Segrate a concedergli la costruzione di Milano2 in cambio di oneri che finanziavano la realizzazione pressoché integrale dei programmi dell’amministrazione. Lo fece con uno stile particolare, presentando personalmente alle assemblee popolari le sue proposte, invece di utilizzare il metodo di altri “palazzinari” che agivano in modo più sornione. Poi attaccò il monopolio televisivo, trovando una sponda decisiva in Bettino Craxi, che condivideva con Berlusconi la convinzione di dover liberalizzare alcuni mercati e di promuovere una visione più ottimistica della “Milano da bere”. Dopo vicende controverse, vinse la battaglia per la libert di antenna e costruì l’impero televisivo privato, assorbendo anche le emittenti che altri avevano tentato con meno fortuna di mettere in piedi. Attualizzando il vecchio detto secondo cui “la pubblicità è l’anima del commercio” riuscì a costituire un network competitivo con l’emittente pubblica sostenendola solo con gli introiti pubblicitari, un sistema televisivo che era anche un’impresa culturale, nel senso che esprimeva un modo di leggere la realtà più disincanto e moderno, anche con programmi innovativi come Drive in e Striscia la notizia, oltre che con il recupero di vecchie glorie della concorrenza, come Mike Bongiorno, la coppia Vianello-Mondaini e persino, per un periodo, Pippo Baudo contro il quale la definizione gramsciana di “nazional-popolare” era stata scagliata come un insulto. Invece proprio il carattere nazionale e popolare fu la chiave del successo delle televisioni di Berlusconi, cioè la volontà di entrare in sintonia con un pubblico di massa, trascurando le occhiute invettive dell’intellettualità sussiegosa di allora (e di oggi). La battaglia politica per la liberalizzazione del mercato televisivo mise Berlusconi a contatto diretto con le dinamiche dei partiti, che peraltro a un certo punto porta all’imposizione per legge alle tv private di trasmettere notiziari di informazione. Anche questa misura, che era stata pensata per ostacolare il successo delle tv private imponendo i costi di una produzione che non si prestava all’accesso pubblicitario, portò Berlusconi a crearsi un network informativo che diventava quasi automaticamente un protagonista della dialettica politica.

Quando con i processi di Tangentopoli e il massacro mediatico e giudiziario di Bettino Craxi si creò un colossale vuoto politico che la sinistra guidata da Achille Occhetto sembrava destinata a riempire senza reali competitori, Berlusconi temendo che si sarebbe tornati ai nefasti “elementi di socialismo”, cercò di favorire una resistenza moderata. Quando l’ultimo leader democristiano, Mino Martinazzoli, rifiutò di guidare uno schieramento di centrodestra, Berlusconi decise di formare un nuovo partito che fosse l’asse centrale di quella coalizione. Pensava che una volta sdoganata la sinistra post comunista, fosse necessario sdoganare anche la destra neofascista, e lo fece appoggiando la candidatura di Gianfranco Fini al Campidoglio. Questa iniziativa gli consentì nelle cruciali elezioni del ’94 di costruire una alleanza a geometria variabile, che vedeva la sua creatura, Forza Italia, alleata di Alleanza nazionale nel centro-sud e con la Lega di Umberto Bossi al nord. Sembrò a molti un’operazione avventata ed effimera, costruita solo su un obsoleto anticomunismo ormai inefficace dopo il crollo dell’Unione Sovietica, ma corrispondeva a una concezione pragmatica della battaglia politica, che scavalcava le differenze ideologiche per rivolgere all’elettorato un messaggio personale. Contrariamente a tutte le previsioni, l’operazione ebbe successo e così Berlusconi potè costituire il suo primo governo, che durò poco, anche a causa del riemergere di quelle differenze e diffidenze che erano state trascurate, ma che determinò un cambiamento decisivo nella dinamica politica italiana. Da allora in poi, pur con sussulti o oscillazioni, l’Italia si è divisa tra berlusconiani e anti-berlusconiani, confermando la centralità della sua iniziativa e la dialettica fondamentale è diventata quella tra centrodestra e centrosinistra.

Le analisi che consideravano effimera la presenza politica di Berlusconi, che poi si sono ripetute per decenni nonostante l’evidenza del contrario, mettevano l’accento sul carattere anarchico e insieme personalistico della visione politica e soprattutto organizzativa di Berlusconi, e in questo coglievano un dato reale. All’inizio, Forza Italia, nome dall’eco sportivo, era organizzata come una serie di fan club, una specie di tifoseria, lontanissima dallo schema classico delle organizzazioni di partito. Messa poi alla prova delle competizioni elettorali e della gestione concreta delle amministrazioni locali, questa organizzazione non ha retto e alla fine, nello stesso ambito del centrodestra, è stata superata da quelle formazioni che avevano costruito strutture territoriali magari meno innovative ma più resistenti. Tuttavia l’idea che la creatura di Berlusconi, una volta esclusa dal governo, non sarebbe stata in grado di reggere periodi piuttosto lunghi di opposizione, si è dimostrata anch’essa infondata. Va detto che alla base di questa persistenza c’era la forza delle cose: Romano Prodi, uomo dell’industria di stato, dovette procedere alla privatizzazione delle banche della “sua” Iri, e i governi di centrosinistra dovettero proseguire nella linea delle liberalizzazioni che era stata inaugurata della battaglia di Berlusconi, prima come imprenditore e poi come uomo politico.

Se il contributo di Berlusconi al cambiamento della sintassi politica italiana è evidente, anche nel comportamento dei suoi avversari, sulla sua azione di governo concreta ha pesato una certa impreparazione nella gestione della complessa macchina dello Stato. Così spiccano scelte caratterizzata da una forma di centralismo, per così dire, come la abolizione delle tasse di successione per gli eredi di primo grado, contestata ma anche assai apprezzata, mentre le riforme, gli interventi che richiederebbero un impegno attivo delle pubbliche amministrazioni a tutti i livelli, sono rimaste al palo. Lo stesso, in un certo senso, si può dire della politica internazionale, in cui spicca la sua visione basata sull’obiettivo di integrare la Russia nel sistema occidentale, espressa nella storica riunione di Pratica di mare, il momento in cui si fu più vicini a chiudere davvero la guerra fredda e il cui fallimento si paga caro ancora oggi, mentre la politica estera più “quotidiana” delle relazioni interstatali non fu gestita con sufficiente attenzione, il che a un certo punto provocò l’isolamento dall’asse franco-tedesco che provocò la caduta del suo governo. Anche nei rapporti con gli alleati, lo sforzo di Berlusconi si è concentrato sui processi di lungo termine: ha spinto perché la Lega assumesse un carattere nazionale abbandonando le velleità separatiste e c’è riuscito, puntava a rendere la destra postfascista una componente “normale” della democrazia repubblicana e anche in questo ha ottenuto un buon risultato. Quando invece si passa alle relazioni con i leader di partito alleati, si nota una difficoltà a stabilirle in modo chiaro e convincente, il che ha in qualche modo favorito se non addirittura provocato tensioni e spaccature, prima con Bossi, poi con Gianfranco Fini. Alla fine Berlusconi è riuscito comunque a ricostruire ogni volta l’unità del centrodestra, anche cedendo ad altri il primato nella coalizione, ma non è riuscito (o non ha voluto) dare al suo stesso partito un profilo che potesse mantenersi centrale anche al di là della figura dominante del “fondatore”. I vari delfini che si sono succeduti alla corte di Forza Italia sono durati solo una stagione, il che pone ora la domanda su che cosa resta del berlusconismo. Resta il mutamento della società italiana che ha interpretato, resta il mutamento della politica che ha prodotto, ma è dubbio che, proprio perché ormai il lavoro principale è stato compiuto, la funzione di Forza Italia resti propositiva e capace di promuovere le innovazioni che ora una situazione diversa sul piano interno e internazionale richiede. I dubbi sul futuro non debbono però offuscare la comprensione della profondità delle modificazioni introdotte. L’eredità che lascia il berlusconismo è più libertà per le persone, per le imprese, per l’Italia, un’eredità grande che è anche una responsabilità pesante per chi vorrà o saprà intestarsela.

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