(foto LaPresse)

L'editoriale del direttore

Nella destra di governo più del modello Orbán vale il modello Insegno

Claudio Cerasa

Attenti agli uomini da piazzare, piuttosto che a trasformare l’Italia in una succursale dell’Ungheria. Ma l’opposizione ancora non se ne rende conto. Perché quelle su Corte dei conti e Consulta non possono essere considerate mosse autoritarie

Più modello Pino Insegno che modello Viktor Orbán. Sono giorni che gli oppositori del governo Meloni cercano di portare acqua al mulino di una tesi spericolata. E la tesi è quella che sapete: più passa il tempo e più il governo Meloni tende maledettamente a somigliare al governo Orbán. Questo giornale, il giorno dopo le elezioni, il giorno dopo la vittoria del centrodestra, il giorno dopo l’affermazione storica della destra nazionalista, ha scelto di sintetizzare, con un titolo a tutta pagina, l’affermazione di Giorgia Meloni in un modo brutale, che forse ricorderete: “Buongiorno Ungheria”. Ma a quasi nove mesi da quella data si può dire che la trasformazione dell’Italia in una succursale dell’Ungheria non c’è stata. E visto quello che è successo in questi mesi, il parallelismo tra i due paesi fa sorridere. Fa sorridere per quello che l’Italia ha fatto vedere in politica estera, mettendo in campo una linea di non ambiguità sulla Russia che l’Ungheria di Orbán ha invece avuto. Fa sorridere per quello che l’Italia ha fatto vedere sul fronte dell’indipendenza energetica, scegliendo a differenza dell’Ungheria di emanciparsi dall’approvvigionamento russo.

 

Fa sorridere per quello che l’Italia ha fatto in Europa, scegliendo di non sfidare in nessuna occasione le regole di Bruxelles. Fa sorridere anche per quello che l’Italia sostiene di voler fare sull’immigrazione, essendo la linea del governo Meloni finalizzata a ottenere l’opposto di quello che sogna di avere Orbán dall’Europa: non più spazio alle azioni degli stati nazionali, ma più doveri della comunità europea, anche a costo, come sostiene Matteo Piantedosi, “di combattere in Europa per avere meno ricollocamenti volontari e più ricollocamenti obbligatori”, l’esatto opposto di quello che chiede Orbán.

Il paragone potrebbe non far sorridere ragionando in astratto sul tema dei diritti, ma anche qui il governo Meloni si è limitato a ingaggiare battaglie simboliche: ha vietato ciò che in Italia è già ampiamente vietato, la surrogata, e fin dal primo giorno ha scelto di far sapere che, contrariamente a quello che qualcuno poteva temere, la legge sull’interruzione di gravidanza non verrà toccata. Il dato però più interessante da mettere a fuoco per provare a ragionare con un po’ più di leggerezza sul tema dell’ungherizzazione dell’Italia è che in questi mesi il centrodestra ha dimostrato di avere a cuore non la rivoluzione del sistema politico e istituzionale del nostro paese ma solo la sua conquista. Lo ha fatto, anche qui, proponendo riforme che hanno diviso più l’opposizione che il paese, riforme così poco divisive da essere state nel passato proposte anche dagli avversari. Lo ha fatto, anche qui, rimangiandosi una riforma questa sì rivoluzionaria, e questa sì divisiva, che il centrodestra ha ammesso di aver riposto in un cassetto, ovverosia la riforma presidenziale. E ha mostrato questa indole anche nelle varie partite legate alle nomine che hanno visto il centrodestra portare avanti un atteggiamento simmetrico rispetto a quello adottato nel passato dai suoi avversari: occupare potere. Più che essere mossi dall’indole di voler cambiare sistema, indole che per esempio aveva Matteo Renzi quando alla guida del governo cercò di cambiare la Costituzione, di cambiare la Rai, di cambiare il bicameralismo, il centrodestra sembra essere mosso dall’indole di voler fare quello che il Pd ha fatto in questi anni, ovverosia gestire il potere, e se si ha l’onestà di mettere insieme i puntini si noterà che in fondo il centrodestra, in questi mesi, ha portato a casa meno di quello che avrebbe potuto.

 

Sulle grandi partecipate dello stato, ha confermato due manager che in passato avevano scelto gli avversari: Del Fante in Poste e Descalzi in Eni. Nel mondo della grande burocrazia, ha scelto di lasciare al suo posto il ragioniere generale dello stato: Biagio Mazzotta. Nel mondo della Pubblica amministrazione, ha scelto di lasciare al suo posto anche il direttore dell’Agenzia delle entrate: Ernesto Maria Ruffini. E persino in Rai, pur avendo mandato via anzitempo, o meglio, pur avendo mostrato all’ex amministratore delegato Carlo Fuortes la porta di casa, facendo tra l’altro quello che il Pd sognava da mesi, già dai tempi di Mario Draghi, persino in Rai, si diceva, dove le nomine le ha portate avanti grazie all’astensione di uno dei partiti d’opposizione, ovvero il M5s, il centrodestra ha mantenuto alcune posizioni immacolate: il direttore del Tg3, Mario Orfeo, stimato dall’opposizione ma anche dalla maggioranza, e il numero uno di Rai Cinema, Paolo Del Brocco. Il centrodestra meloniano è ossessionato più dalla volontà di piazzare in ogni dove i suoi Pino Insegno che dalla volontà di scassare il sistema e anche le due partite che al momento risultano essere quelle più eclatanti, rispetto al tema dell’ungherizzazione dell’Italia, fanno sorridere.

 

Fa sorridere che togliere alcuni poteri alla Corte dei conti, per provare ad accelerare il Pnrr, possa essere considerata una mossa “autoritaria”. E fa sorridere che pensare di poter aumentare la propria presenza alla Corte costituzionale, per il centrodestra, possa essere considerata una lesa maestà nei confronti del bon ton istituzionale, considerando anche il fatto che quando a novembre scadrà l’attuale presidente, Silvana Sciarra, essendo il criterio normale di successione legato all’anzianità, non ci sarà con ragionevole certezza un presidente della Corte vicino alla maggioranza di governo, essendo i tre giudici più anziani più vicini al centrosinistra (Modugno, Barbera, Prosperetti). Il centrodestra, nel passato, è stato legato in modo ambiguo, sospetto e tossico al modello Orbán e per molto tempo Salvini e Meloni hanno scelto di considerare la democratura ungherese come il paradiso in terra della destra nazionalista.

Oggi però, in presenza di una destra che tende a dividere le opposizioni più che il paese e che a piccoli passi si è resa conto che la sua vicinanza al modello Orbán è inversamente proporzionale alla possibilità che in Europa venga difesa la sovranità dell’Italia, il tema appare diverso (ed è anche per questo probabilmente che la scorsa settimana l’Italia ha scelto di fare un primo passo lontano dall’Ungheria, votando, in Europa, a favore del patto sull’immigrazione, osteggiato da Orbán). E l’ossessione della destra meloniana appare essere più legata al modello Pino Insegno che al modello Viktor Orbán. E fino a quando vi sarà un’opposizione interessata all’agenda della fuffa sarà complicato avere un’opposizione in grado di comprendere come sfidare il centrodestra non rincorrendo le farfalle ma occupandosi semplicemente di realtà.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.