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Il paradiso dei controllori

Non solo la Corte dei Conti: dai Tar al Consiglio di stato, i magistrati che bloccano la politica

Stefano Cingolani

La cultura del controllo in Italia è confusa con la cultura dell’autorizzazione amministrativa spesso paralizzante e inefficace. Così i giudici rallentano, e talvolta fermano, l'azione dei governi, a colpi di bollini

Camillo Benso conte di Cavour aveva le idee chiare: “Bisogna concentrare il controllo preventivo e consuntivo in un magistrato inamovibile”, sosteneva già nel 1852, pensando di trasformare la rugginosa monarchia sabauda in un moderno regime liberale. La morte lo colse un anno prima che il nuovo stato unitario istituisse la Corte dei conti da lui propugnata sul modello napoleonico. Dopo 161 anni, Giorgia Meloni sfida persino Cavour? Non è la sola né l’unica. I cronisti politici rievocano le ire funeste di Matteo Renzi contro la Corte dei conti, la Ragioneria e persino il Consiglio di stato che facevano le bucce ai provvedimento del suo governo. Niente lacci né impacci. Il commissario del popolo sovrano deve rispondere solo alla volontà generale che è chiamato a interpretare. Nel secolo dei populismi torna Rousseau mentre va in pensione Montesquieu? I cattivi maestri dei nostri giorni la pensano così, ma continuano a essere vittime del passato. E se invece gettassimo lo sguardo, la mente, il cuore verso il futuro? Avanziamo una modesta proposta, meno provocatoria, senza dubbio meno cruenta di quella ideata da Jonathan Swift: invece che ai magistrati, affidiamo il controllo su come viene usato il denaro dei contribuenti all’intelligenza artificiale. Se ha saputo trovare un antibiotico in grado di debellare batteri ritenuti invincibili, se ha vinto agli scacchi sacrificando subito la regina, con l’incredula meraviglia di Garry Kasparov, volete che non sappia come sbloccare il Pnrr? Un metodo onesto, facile, anche se non poco costoso.

Il castello dei controlli burocratici, amministrativi, giudiziari, in Italia è davvero imponente e barocco, dalla Corte costituzionale al Consiglio di stato, dalla Corte dei conti alla Ragioneria generale, dalla Banca centrale alla Vigilanza, le magistrature parallele e quelle locali, poi le autorità più o meno indipendenti, forme nuove di ispirazione antica, impalcature che si sono aggiunte senza che le vecchie venissero smontate. La prima è la Consob nata per vigilare sul comportamento delle società quotate in borsa, la più importante per i cittadini è quella che deve tutelare la concorrenza, l’Antitrust, l’ultima nata è l’Anac, l’authority contro la corruzione, in mezzo ce ne sono altre: il Garante della privacy e quello dei prezzi, l’Ivass (assicurazioni), la Covip (fondi pensione), l’Agcom (telecomunicazioni), l’Autorità dei trasporti,  l’Aeeg (energia). Tutte insieme hanno 2.300 dipendenti e costano, secondo le stime, oltre 600 milioni l’anno. A pagare però non è sempre lo stato: quando si tratta di un servizio che riguarda il buon funzionamento dei mercati, l’onere ricade sulle aziende vigilate che versano una quota annua, alla quale s’aggiunge l’ammontare delle multe, alcune delle quali sono davvero consistenti (si pensi ai 103 milioni di euro a Telecom e ai 180 milioni a Roche e Novartis comminate dall’Antitrust presieduto da Giovanni Pitruzzella). Il problema, dunque, nel caso delle Authority non è il costo per i contribuenti, ma la loro efficacia.

La necessità di porre limiti al Principe non è certo nuova, risale al medioevo e prima ancora alla Repubblica romana. Nemmeno gli imperatori hanno mai abolito il Senato, lo hanno solo depotenziato. Le monarchie assolute non hanno potuto fare a meno di qualche check and balance, dalla Magna Charta agli Stati generali francesi o alla Camera dei sedili nel reame di Napoli, cinque per i nobili uno per il popolo. Ma non corriamo troppo indietro nel tempo, torniamo qui, all’odierna pietra dello scandalo. La Corte dei Conti nasce nella Francia imperiale il 16 settembre 1807, quale evoluzione delle Chambres des comptes risalenti all’Ancien Régime, la più importante della quali era quella di Parigi, fondata nel 1319. Anche negli antichi stati italiani esistevano istituzioni simili. Nel regno di Napoli la Regia camera della sommaria risale al 1444; nel ducato di Savoia fu istituita la Camera dei conti di Chambéry nel 1351 e nel 1575 le fu affiancata quella di Torino; nel Lombardo-Veneto austriaco arrivò solo nel 1771; mentre nello Stato pontificio la revisione era svolta della Camera apostolica fin dal XIII secolo. 

La repubblica italiana ha trasformato la magistratura contabile in un organo di rilievo costituzionale, indipendente nei confronti del governo e del Parlamento. Il presidente è nominato per decreto dal presidente della Repubblica (su proposta del presidente del Consiglio dei ministri, sentito il parere del Consiglio di presidenza), tra i magistrati della stessa Corte che abbiano effettivamente esercitato, per almeno tre anni, funzioni di presidente di sezione, o equivalenti presso organi costituzionali nazionali o istituzioni dell’Unione europea. I magistrati sono inamovibili e la Corte gode di autonomia finanziaria e organizzativa. In base all’articolo 100 della Costituzione svolge tre controlli: uno, preventivo, sulla legittimità degli atti del governo; uno, successivo, sulla gestione del bilancio dello stato; il terzo sulla gestione finanziaria degli enti ai quali lo stato contribuisce in via ordinaria. Nel corso degli anni sono stati ridotti gli atti sottoposti al controllo preventivo, aggiungendo però i fondi europei. Anche la copertura delle leggi di spesa è finita sotto la lente dei magistrati. La Corte, nell’esercizio delle proprie funzioni, può chiedere alla Consulta di pronunciarsi sulla conformità delle leggi poste alla base dell’atto controllato, assimilandolo così a un procedimento di natura giurisdizionale. 

Ma che cosa succede alla fine di tutta questa complessa trafila? Non esiste una vera e propria sanzione, se non pecuniaria. La stessa Corte spiega che il meccanismo “è teso a provocare una correzione spontanea da parte delle amministrazioni controllate. Nell’ipotesi in cui le amministrazioni non si attengano alle indicazioni del controllore potrà sempre scattare la responsabilità politica dei titolari degli organi ed uffici e, sussistendone i presupposti, anche giuridica dei singoli funzionari ed amministratori, ove dalla condotta dei medesimi sia derivato un danno pubblico patrimoniale”. Nessun rapporto diretto tra esito negativo del controllo sulla gestione e responsabilità di singoli funzionari o amministratori pubblici. La Corte riferisce al Parlamento e ai consigli regionali; nel caso in cui l’amministrazione non ritenga di ottemperare ai rilievi formulati, è tenuta ad adottare, entro trenta giorni dalla ricezione dei rilievi, un provvedimento motivato. Il vero potere è nel pubblico ministero il quale può intraprendere un’azione di responsabilità amministrativa. 

Dunque una magistratura parallela, copia di quella penale e di quella civile, con carriere inattaccabili che si svolgono tutte all’interno, anche se autonomia e indipendenza non impediscono di collaborare direttamente con i governi: troviamo magistrati contabili sparsi un po’ ovunque nei ministeri e nelle regioni dove operano anche i Tar, i tribunali amministrativi. Ce n’è uno ogni regione, con un presidente e almeno cinque magistrati suddivisi in consiglieri, primi referendari e referendari. Le decisioni vengono prese con l’assenso di tre giudici e possono essere appellabili davanti al Consiglio di stato. L’ispirazione di fondo è tutelare il cittadino che si sente leso da un qualsiasi atto amministrativo, dunque è il baluardo della libertà individuale, il difensore degli oppressi dal Leviatano. Previsti dalla Costituzione, sono nati nel 1971 con tutte le riforme che hanno dato vita allo stato sociale italiano (le pensioni, il servizio sanitario nazionale, lo Statuto dei lavoratori). E come la maggior parte di quelle riforme, ha subito una metamorfosi che spesso ha prodotto un’eterogenesi dei fini. Chi doveva essere difeso e protetto dalla culla alla tomba è finito vittima di un ingranaggio micidiale, troppo costoso e spesso incontrollabile, il cui effetto oggettivo (talvolta persino voluto) è una foresta pietrificata.

Prendiamo lo stesso Consiglio di stato discendente dal Consilium principis che un tempo aveva una funzione politica. L’articolo 100 della Costituzione (lo stesso che regola anche la Corte dei conti) lo definisce “organo di consulenza e di tutela della giustizia dell’amministrazione”, in altri termini può allo stesso tempo aiutare il governo e bacchettarlo. Come la Corte dei conti, è una eredità sabaudo-napoleonica. Il duca Amedeo VIII nel 1430 istituì il Consilium nobiscum residens presieduto dallo stesso Duca. Carlo Alberto nel 1831 vi rimise mano e Vittorio Emanuele II lo rese più indipendente creando la carica di presidente affidata a Luigi des Ambrois de Névache che fu tra gli estensori dello Statuto albertino. ll barone che tanto si batté per il traforo del Frejus si sarà rivoltato nelle tomba quando nel 2015 il Consiglio ha dato ragione ai No Tav. 

Come si accede a queste alte cariche? Metà dei posti è destinata “ai consiglieri di tribunale amministrativo regionale che ne facciano domanda e che abbiano almeno quattro anni di effettivo servizio nella qualifica”. Un quarto ai professori universitari ordinari di materie giuridiche, avvocati, magistrati, dirigenti generali delle amministrazioni pubbliche. In tal caso, la nomina spetta al Consiglio dei ministri e il decreto viene firmato dal presidente della Repubblica. E qui la politica è padrona. Il resto arriva da un concorso pubblico per titoli ed esami teorico-pratici, al quale possono partecipare i magistrati e i funzionari del Parlamento e dell’amministrazione statale, tutti almeno dirigenti e laureati in giurisprudenza perché a palazzo Spada regna il diritto, non l’economia. Lo stesso vale per la Corte dei conti. 
Uno stato moderno, liberal-democratico e più leggero, riplasmato dalla rivoluzione di internet, ha proprio bisogno di tutta questa armatura burocratica? In certi paesi le funzioni di controllo sono svolte da autorità amministrative indipendenti: in Germania il Bundesrechnungshof, i cui membri godono della stessa indipendenza dei giudici; in Svizzera il Controllo federale delle finanze è un ufficio indipendente aggregato al Dipartimento federale delle finanze solo sotto il profilo amministrativo; in Svezia il Riksrevisionen è diretto da un collegio di tre revisori (cinque in Norvegia) eletti dal parlamento. Là dove regna la common law, la funzione di controllo è svolta da un organo monocratico denominato auditor general o comptroller general, così è negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, Irlanda e India. Si tratta di un organo indipendente, nominato dal capo del governo e preposto a un ufficio nel quale operano professionisti della revisione contabile, che trasmette rapporti periodici a un’apposita commissione parlamentare la quale chiama a rispondere esponenti del governo e della pubblica amministrazione, per poi riferire all’assemblea. 

Negli Stati Uniti, il General Accounting Office ha una piccola squadra di giuristi (appena il 5 per cento dei laureati in servizio) gli altri sono economisti, statistici, ingegneri e perfino fisici, agronomi, biologi; a differenza dall’Italia che si autoproclama patria del diritto, nel mondo anglosassone l’onniscienza non s’addice ai magistrati. Se si volesse adottare quel modello andrebbero escluse le implicazioni di responsabilità contabile (le segnalazioni alle procure della Corte dei conti) e andrebbe drasticamente rivista la composizione dei collegi, sostituendo i giuristi con tutte le altre professionalità necessarie. Nel 1997 Franco Bassanini provò a riservare almeno un quinto dei posti (lo definì un “minimo sindacale”) nei concorsi per diventare consiglieri della Corte dei conti ai laureati in economia, statistica e ingegneria gestionale. Ma la stessa Corte rispose bocciando tutti i relativi candidati nei concorsi successivi, perché non in grado di superare gli esami scritti previsti che, ça va sans dire, erano concentrati su materie giuridiche. Allora fu resistenza passiva, oggi è rivolta aperta; resistere, resistere, resistere.

Non sempre i magistrati contabili hanno le unghie spuntate. La Corte dei conti è stata protagonista della partita attorno al Mose che nel 2017 ha portato alla condanna di Giancarlo Galan, ex presidente della regione (doveva restituire 5,8 milioni di euro) e Patrizio Cuccioletta, magistrato delle acque (2,7 milioni). Alla guida della sezione veneta era Guido Carlino che dal 2020 è presidente della Corte. Nel dispositivo della sentenza ha scritto che c’è stato “un formidabile disprezzo dei valori fondanti il rapporto di impiego pubblico”, tale da ridurre il prestigio e la reputazione della Pubblica amministrazione. Carlino è stato protagonista anche nella sua Sicilia (è nato a Canicattì) di uno scontro sul bilancio: ha bocciato i conti chiedendo di ripianare il buco di 2,2 miliardi in tre anni e non in dieci come pianificato dal governo regionale. “Apporteremo i dovuti correttivi”, ha replicato il presidente Renato Schifani. Wait and see. 

La cultura del controllo in Italia è confusa con la cultura dell’autorizzazione amministrativa spesso paralizzante e inefficace. Cominciamo dal bilancio dello stato. La spesa pubblica in rapporto al prodotto lordo aveva raggiunto nel 1999 la quota minima del 45 per cento che certo non era poco nemmeno a confronto con altri grandi paesi europei. Nel 2008 era salita già oltre il 50 per cento, per arrivare al picco del 58 nel 2020 a causa dei sostegni e degli aiuti contro la pandemia che sono stati pari al 3,7 per cento del pil. Se escludiamo l’effetto del Covid siamo comunque a un aumento del 10 per cento. Tutte spese necessarie? E’ migliorata la sanità, si sono costruite o ristrutturate più scuole, i servizi funzionano meglio, è possibile avere in tempi ragionevoli la carta d’identità? La Ragioneria bollina, la Corte dei conti rimbrotta, il Consiglio di stato suggerisce, la Corte costituzionale vigila che non sia violata l’aurea norma secondo la quale ogni nuova spesa sia coperta da nuove entrate: l’articolo 81 secondo il quale “lo stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio” che è stato introdotto nel 1981 quando l’euro era di là da venire. Eppure nessuno è in grado di fermare la corsa verso l’abisso del debito sovrano che fra due anni sarà il primo d’Europa rispetto al pil, superando anche la Grecia, il terzo al mondo dopo Giappone e Venezuela.

E le autorità indipendenti fino a che punto esercitano la loro autorità? L’inflazione ha messo sul banco degli accusati il Garante per la sorveglianza dei prezzi (sì, anche se non molti se ne sono accorti esiste anche lui). “Mister Prezzi” è venuto alla luce nel 2008 quando non ce n’era bisogno (ammesso che serva davvero). Il suo nome è Benedetto Mineo, dirigente del ministero dello Sviluppo che si chiama delle Imprese e del made in Italy. Il governo Meloni gli ha affidato anche il potere sanzionatorio, ma nessuna multa può fermare l’onda alla quale non resistono nemmeno le banche centrali. Dunque a che cosa serve, a trovare il capro sul quale rovesciare l’ira del popolo? Lui come tutti gli altri garanti, a cominciare da quello dell’energia, vengono trasformati in paraventi, ma son fatti di carta da riso. E’ arrivato il momento di sottoporre a un check-up le istituzioni nate con la lodevole intenzione di sorvegliare e punire, affinché il gioco a rimpiattino tra stato e mercato, tra interesse pubblico e privato avvenga in modo equo. Vasto programma, spesso troppo vasto per chiunque sieda al vertice dell’Antitrust, della Consob e di tutte le altre.

Meno bollini più risultati. Se questa diventa la pietra di paragone, allora la querelle sul controllo ex ante, contestuale o quel che sia, per quanto appassioni i giuristi, passa in secondo piano. Quel che conta davvero è che il cane da guardia tenga lontani i malintenzionati, che sia in grado di abbaiare al momento opportuno così da incutere davvero rispetto e richiamare l’intervento del padrone. In Italia quando è accaduto, pochi se ne sono davvero accorti. La burocrazia è d’impaccio perché è rimasta fuori dalla quarta rivoluzione industriale, è questa la lezione che viene dalle difficoltà di “mettere a terra” il Pnrr, anche se nessuno sembra voler trarne le conseguenze. La Corte dei conti va riformata perché ha troppi laureati in legge, troppo pochi in economia, ancor meno in gestione aziendale. Ma pure in questo caso il dibattito parla d’altro, parla di potere della magistratura parallela e della politica onnivora, non ci si rende conto di quanto sia fuori dal mondo, il nuovo mondo dell’intelligenza artificiale. La nostra modesta proposta è irrealizzabile, lo sappiamo, non tanto perché non esistono ancora gli strumenti adatti, ma perché l’algoritmo della spesa risponde a un’intelligenza tutt’altro che artificiale.

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