(foto Ansa)

L'editoriale del direttore

Comuni e mercati dicono all'opposizione che è ora del piano B

Claudio Cerasa

Per contrastare una maggioranza che ha saputo cambiare, lo spread e l’allarme fascismo sono armi spuntate. Serve una coalizione larga attorno al Pd. Servono più fatti e meno propaganda. E concentrare la sfida sul Pnrr, la crescita, il lavoro, i salari

Il risultato del primo turno delle elezioni comunali – elezioni che pur riguardando comuni relativamente piccoli coinvolgono circa sei milioni di elettori – confermerà al centrosinistra una direzione praticamente obbligata per provare nel futuro a impensierire il centrodestra di Giorgia Meloni. La direzione obbligata passa dalla necessità di costruire attorno al Partito democratico una coalizione molto larga capace di abbracciare anche chi oggi, nell’opposizione, si guarda in cagnesco. Non è semplice immaginare che un giorno Matteo Renzi, Carlo Calenda, Elly Schlein, Emma Bonino, Giuseppe Conte, Angelo Bonelli possano trovare un modo per andare d’accordo. Ed è semplice anzi immaginare che nei prossimi mesi, complici le elezioni europee della primavera del 2024 che alimenteranno la concorrenza tra i partiti grazie al proporzionale con cui si andrà a votare, la competizione tra i partiti d’opposizione aumenterà a dismisura.

 

Eppure non è difficile credere che, nei prossimi mesi, su alcuni temi le opposizioni oggi così divise troveranno comunque un modo per dialogare, per annusarsi e per trovare punti di contatto su almeno tre partite: battaglie sul salario minimo, europeizzazione delle politiche sull’immigrazione, lotta contro le derive sovraniste del governo Meloni. Non saranno battaglie sufficienti per costruire intese, ma saranno battaglie interessanti da seguire per capire se i vari partiti che oggi formano la coalizione che non c’è sono intenzionati o no a regalare a lungo l’Italia alla destra in formato Meloni.

Accanto a questa consapevolezza, basilare, ve n’è un’altra molto importante che meriterebbe di emergere con forza nei prossimi mesi e che ha a che fare con un tema solo apparentemente scollegato da quello appena illuminato. Il tema è questo: il rapporto decisamente sorprendente costruito dal governo Meloni con il mondo dei mercati finanziari. Un rapporto che dice molto di un problema dell’opposizione, ma che dice molto anche di una trasformazione della stessa Meloni. Ma andiamo con ordine. C’è stato un tempo, ricorderete, un tempo cominciato più o meno nell’estate del 2011, in cui il centrosinistra ha tentato in tutti i modi di far arrivare un messaggio preciso all’elettorato italiano. Una forza politica che viene bocciata dai mercati è una forza politica che merita di essere considerata inadatta a governare e che merita di essere rapidamente espulsa dalla guida del paese.

 

La trasformazione dello spread in un termometro cruciale, strategico, identitario per misurare la bontà di un’azione politica – un tempo, nel manuale del perfetto democratico, vi era il tintinnar di manette come spauracchio perfetto da usare per combattere avversari imbattibili sul campo, oggi la stessa funzione è stata trasferita al tintinnar dello spread – ha però avuto un risvolto scivoloso, che è proprio quello che stiamo osservando oggi. Il centrosinistra, come ricorderete, aveva scommesso forte sulla incompatibilità latente tra l’azione del governo Meloni e il giudizio degli amati mercati (Carlo Calenda, a ottobre, arrivò a pronosticare sei mesi di vita per questo esecutivo). Ma a otto mesi dalla nascita del governo Meloni la verità è che quello che il centrosinistra ha trasformato progressivamente in un termometro perfetto per misurare l’incapacità dei propri avversari è divenuto il suo opposto. Ed è divenuto invece un termometro utile a misurare qualcosa di più interessante: la distanza che esiste tra le attese dell’opposizione e la realtà dei fatti. Lo spread, lo vediamo da tempo, non ha mai fatto segnare in questi mesi fibrillazioni. I mercati, come è ormai evidente, non mostrano segnali di preoccupazione per il futuro dell’Italia.

 

Gli investitori, inoltre, piuttosto che fuggire da un paese dominato dai sovranisti, hanno scelto, almeno finora, di scommettere sul futuro dell’Italia, e anche il successo delle recenti aste dei Btp, da questo punto di vista, è un segnale incoraggiante. E i voti raccolti dai vertici di Enel la scorsa settimana, nonostante qualche preoccupazione iniziale per il profilo di Paolo Scaroni, sono lì a certificare l’assenza di una diffidenza tra i custodi dei mercati e i vecchi nazionalisti di governo. Il cortocircuito è interessante per la sinistra, che ha sempre detto che i mercati aiutano i governi buoni, ed è interessante anche per la destra, che in passato ha spesso detto che i mercati aiutano solo i governi di sinistra.

 

Ma più che soffermarci su un tema più volte affrontato su queste pagine – ovverosia la necessità da parte del governo Meloni di smentire spesso le sue promesse per essere compatibile con la realtà, prassi che ha permesso al governo Meloni di rassicurare almeno finora gli investitori – è utile tornare al punto di partenza e alla necessità assoluta da parte delle opposizioni di passare con urgenza al piano B. Un piano B relativo alla necessità di costruire una nuova geometria nei rapporti di forza nell’opposizione e all’urgenza di trovare terreni diversi da quelli pigri del passato per incalzare il governo. Appellarsi al tintinnar di manette, sperare nel miracolo dello spread, denunciare il fascismo di un governo che combatte l’unico fascista in servizio permanente effettivo, un fascio di nome Putin, appaiono tentativi utili a mostrare più le impotenze delle opposizioni che i deficit del governo. Un piano B è urgente. Per trovare il modo di unire le forze, anche facendo finta di dividersi. E per cercare una via utile per incalzare il governo sui fronti da cui passa il futuro dell’Italia e anche quello dell’opposizione, anche a costo di sfidare il governo a fare quello che ha promesso di fare.

 

Scommessa sul Pnrr, politiche per la crescita, creazione di posti di lavoro, battaglia per avere salari migliori. Meno propaganda, più fatti. Meno slogan, più idee. Meno proteste, più proposte. Lo dicono i numeri dei comuni, lo dicono le attenzioni dei mercati. Il piano B passa anche da qui. Dalla consapevolezza che, di fronte a un governo che cambia, non cambiare il modello d’opposizione significa non voler cambiare l’Italia.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.